giovedì 27 aprile 2017

1t - 2 - I primi filosofi

Le Slides e la Dispensa



















I PRIMI FILOSOFI


I primi passi della filosofia sono stati compiuti nelle colonie della Ionia, sulle vivaci coste dell’Asia Minore (l’attuale Turchia), come Mileto ed Efeso. Se le città del continente, lontane dal contatto con altre popolazioni, rimasero chiuse e vincolate all'orizzonte cosmico e religioso tradizionale, le città coloniali lambite dal mare sono invece caratterizzate da un maggior dinamismo anche sul piano intellettuale. Il fatto stesso che fossero terre di confine (e quindi a contatto con credenze e costumi diversi) contribuì a fare di queste aree zone in cui era molto sentito il problema della propria identità e della posizione del mondo. Un modo per risolvere questo problema può essere rintracciato nella ricerca di ciò che rende il mondo, al di là della varietà delle sue manifestazioni, una totalità unitaria.

Il tempo ciclico dei Greci

I Greci avevano una percezione ciclica del tempo, secondo un’eredità che risale alle culture contadine arcaiche: un eterno avvicendarsi delle cose, analogo al susseguirsi costante delle stagioni e al tempo del cielo.
I pianeti tornano periodicamente a occupare le medesime posizioni e il cosmo segue un ritmo scandito dal Grande Anno, della durata di circa 26.000 anni, al termine del quale tutto ritorna esattamente com’era. Il mondo è dunque eterno e si ripete; periodicamente viene distrutto e periodicamente rinasce. Ciò che succederà è già stato, ma solo gli dei ne hanno piena consapevolezza, e da qui deriva la loro onniscienza. Anche le vicende dell’umanità sono influenzate e scandite dal moto circolare delle sfere celesti, quindi sono vincolate a un ritmo periodico.
Questa dottrina del ritorno ciclico di tutte le cose percorre l’intera civiltà greca, tanto che ancora nel IV secolo d.C. il filosofo neopitagorico Nemesio di Emesa può dire: «Ogni città, ogni villaggio, ogni campo rinascerà tale e quale. E questa rinascita dell’universo non avrà luogo una volta sola, ma più e più volte, senza fine, per tutta l’eternità. Fra gli dei, coloro che non sono soggetti alla distruzione, osservando l’andamento di un periodo dato, da esso potranno derivare tutto ciò che accadrà in tutti i periodi successivi. Non ci sarà mai cosa nuova rispetto a ciò che è stato dato in passato: tutto si ripeterà nei minimi dettagli».


 Il serpente che divora la propria coda, chiamato “ouroboro”, è un’immagine del tempo che ritorna su se stesso, simbolo ricorrente della ciclicità. L’esempio qui riportato è tratto da un antico papiro greco.





(640 a.C./625 a.C. – circa 547 a.C.) Il presocratico Talete è il primo filosofo che la storia ricordi e ci è presentato da Aristotele (in Metafisica, I) proiettato in questa ricerca della Verità.
"La maggior parte di coloro che primi filosofarono pensarono che princípi di tutte le cose fossero solo quelli materiali. Infatti essi affermano che ciò di cui tutti gli esseri sono costituiti e ciò da cui derivano originariamente e in cui si risolvono da ultimo, è elemento ed è principio degli esseri, in quanto è una realtà che permane identica pur nel trasmutarsi delle sue affezioni. E, per questa ragione, essi credono che nulla si generi e che nulla si distrugga, dal momento che una tale realtà si conserva sempre. … Talete, iniziatore di questo tipo di filosofia, dice che quel principio è l’acqua (per questo afferma anche che la Terra galleggia sull’acqua), desumendo indubbiamente questa sua convinzione dalla constatazione che il nutrimento di tutte le cose è umido, e che perfino il caldo si genera dall’umido e vive nell’umido. Ora, ciò da cui tutte le cose si generano è, appunto, il principio di tutto. Egli desunse dunque questa convinzione da questo fatto e dal fatto che i semi di tutte le cose hanno una natura umida e l’acqua è il principio della natura delle cose umide". (Aristotele, Metafisica 983 b)
“Talete di Mileto fu senza dubbio il più importante tra i primi filosofi. Fu il primo scopritore della geometria, l'osservatore attento della natura, lo studioso dottissimo delle stelle”. È comunemente considerato, da Aristotele in poi il primo filosofo della storia del pensiero occidentale. È noto per la sua ricerca del principio di tutte le cose, di un principio unificatore di tutte le cose, che lui trovò nell’Acqua. Acqua quindi come principio della vita.

 

L'aneddoto di Platone


La menzione della servetta di Tracia ricorre nel dialogo Teeteto di Platone:
 “[Talete], mentre studiava gli astri e guardava in alto, cadde in un pozzo. Una graziosa e intelligente servetta trace lo prese in giro, dicendogli che si preoccupava tanto di conoscere le cose che stanno in cielo, ma non vedeva quelle gli stavano davanti, tra i piedi. La stessa ironia è riservata a chi passa il tempo a filosofare [...] provoca il riso non solo delle schiave di Tracia, ma anche del resto della gente, cadendo, per inesperienza, nei pozzi e in ogni difficoltà” (Platone, Teeteto, 174 a-174 c)
A una prima lettura, l'aneddoto, oltre a testimoniare gli interessi astronomici di Talete, mostra la considerazione nella quale, universalmente e in ogni tempo, è tenuto il filosofo e in generale lo studioso, concentrato nelle proprie riflessioni o contemplazioni, lontano dalle cose terrene e inadeguato alla quotidianità della vita, secondo il noto archetipo del «professore distratto». Ma l'aneddoto contiene molto di più. Per Platone «filosofo è colui che volge l'anima dal mondo del divenire a quello della verità e dell'essere», due mondi opposti, essendo il primo il mondo dell'opinione e il secondo quello dell'intellezione. Così Talete volge gli occhi al cielo poiché lì sono le verità eterne, mentre in terra si manifestano le apparenze delle cose. Viene così teorizzata l'esistenza di una realtà "alta" nella quale è assorto il pensiero del filosofo, contrapposta alla realtà "bassa" nel quale resta il suo corpo che v'inciampa e cade, perché di questa realtà non si cura, avendo per lui poco o nessun valore. E il filosofo di Platone non si cura nemmeno, o guarda con sufficienza e irride a sua volta l'irrisione della servetta, ossia della gente comune che fa parte di questa realtà "bassa" alla quale, al contrario di lui, essa è unicamente attenta, senza comprendere l'importanza della speculazione filosofica e la banalità della comune opinione.

I cinque teoremi di geometria elementare attribuiti a Talete:
1.   "Un cerchio è diviso in due aree uguali da qualunque diametro"
3.   "In due rette che si taglino fra loro, gli angoli opposti al vertice sono uguali"
4.   "Due triangoli sono uguali se hanno un lato e i due angoli adiacenti uguali"
5.   "Un triangolo inscritto in una semicirconferenza è rettangolo"

 Anassimandro

Anassimandro individua l’Archè nell’Àpeiron, cioè nel “non limitato” (peiron = perimetro, limite) , o infinito o indeterminato. Così lo descrive:
“Principio degli esseri è l’infinito (àpeiron). Da dove infatti gli esseri hanno l’origine, ivi hanno anche la distruzione secondo necessità, poiché essi pagano l’uno all’altro la pena e l’espiazione dell’ingiustizia secondo l’ordine del tempo”.
L’ Àpeiron è indeterminato, per questo in esso regna l’armonia fra le cose che essendo indeterminate non confliggono fra loro, ma una volta che esse si determinano entrano in contrasto fra loro, per cui il determinarsi delle cose diventa un’ingiustizia. L’esistenza per Anassimandro diventa un’ingiustizia perché rompe quell’armonia che c’era nell’Àpeiron indeterminato dove non esiste il contrasto fra le cose. Questa ingiustizia però poi si placa perché le cose determinate col tempo finiscono e ritorna l’armonia. Il tempo scorre e fa giustizia. Il tutto comunque avviene nella Physis e non ci sono elementi esterni ad essa che la possano influenzare.

È allievo di Anassimandro e si chiede cos’è l‘Àpeiron. Anassimene cerca di spiegarselo pensando che pur essendo Àpeiron indeterminato è comunque capace di determinare tutte le cose che esistono. Individua per questo l’Àpeiron nell’aria perché questa è capace di mostrarsi solida, liquida e gassosa e per Anassimene anche essere la terra stessa e quindi diventare qualsiasi cosa.
 
Eraclìto è stato uno dei maggiori pensatori presocratici, il suo pensiero risulta difficile da comprendere ed è stato interpretato nei modi più diversi a causa del suo stile oracolare e della frammentarietà nella quale ci è giunta la sua opera. Eraclìto aveva comunque fama di cripticità già nella sua epoca.
È stato definito un pensatore solitario e oscuro, ma anche  il filosofo del divenire (Panta Rei = tutto scorre), colui che ha definito essere il fuoco l’archè, cioè il principio di tutte le cose.
Partiamo dal considerare alcuni frammenti originali del suo pensiero:
·         “A chi discende nello stesso fiume sopraggiungono acque sempre diverse”.
·          “Il Dio è giorno notte, inverno estate, guerra pace, sazietà fame, e muta come il fuoco, quando si mescola ai profumi e prende nome dall’aroma di ognuno di essi”.
·         “Per quanto tu possa camminare, e neppure percorrendo intera la via, tu potresti mai trovare i confini dell’anima: così profondo è il suo lògos”.
·         “Polemos (la Contesa, la Guerra, il Contrasto dalla quale deriva anche la voce italiana Polemica) è padre di tutte le cose, di tutte re: e gli uni disvela come dei e gli altri come uomini, gli uni fa schiavi, gli altri liberi.
·         “Ascoltando non me, ma il lògos, è saggio convenire che tutto è uno”.
Partiamo da quest’ultima affermazione di Eraclìto. Come in altri filosofi e pensatori greci c’è sempre questo concetto del “tutto in uno”. La physis contiene il tutto e tutte le cose sono abitatrici della physis, dell’Essere, della Luce, cioè abbiamo tutti qualcosa di comune, per esempio la cittadinanza nella physis. Pure Eraclìto dice “… è saggio convenire che tutto è uno”. Per quanto diverse e opposte le cose si raccolgono in una suprema unità.
L’identità delle cose è il loro stesso essere diverse e opposte. Si può quindi dire che le cose esistono proprio perché sono diverse e si distinguono o sono distinguibili le une dalle altre. Ciascuna di esse esiste perché non si fa penetrare dalle altre, oppure che si può dire che ciascuna cosa non è tutte le altre cose. Un portacenere non è tutte le altre cose, così un ombrello non è tutte le altre cose, ecc.
Comune a tutte le cose è il “non essere le altre cose” diverse da loro. Ciò che è comune ad ogni cosa è la “contesa” nella quale soltanto le cose possono rimanere ciò che sono, non confondersi, non compenetrarsi ma distinguersi e farsi riconoscere.
Per Anassimandro è già una “colpa” il voler essere, cioè il voler contrapporsi agli altri diversi da noi, rompendo l’armonia, ma lo è ancora di più per noi uomini quando non vogliamo tornare nell’armonia dell’indeterminato per trovarvi la pace, cioè quando resistiamo alla morte, anzi al solo pensiero della morte. La cosa diventa ancora più “ingiusta” quando io addirittura cerco di affermarmi prevaricando gli altri.
Per Eraclìto è il perfetto contrario, è proprio la contesa che rende “giustizia”. “La giustizia è la stessa contesa in quanto ogni cosa, per essere ciò che è, ha bisogno di opporsi alle altre”. È l’Armonia dei contrari, cioè una cosa è perché esiste il suo contrario. Abbiamo fame perché esiste la sazietà, sappiamo che è giorno perché sperimentiamo la notte, apprezziamo la pace perché abbiamo sofferto la guerra, conosciamo il bello perché è in contrasto col brutto, ecc. cioè l’uno esiste grazie all’altro. Scompare così il problema della prevaricazione, anzi è proprio la contesa fra una cosa e il suo contrario che impedisce che una prevarichi sull’altra.
Per questo Eraclìto sostiene il divenire, perché la gioventù poi diventa vecchiaia, con la vita sopraggiunge la morte, dopo la pioggia viene il bello, ecc. c’è quindi una ragione, un lògos che governa tutte queste cose. Il lògos è una unità di fondo che, dice Eraclìto, i più non vedono. Sappiamo che lògos , vuol dire ragione, ma anche discorso, ma anche raccolta, cioè qualcosa che raccoglie tutto. Quando egli dice che il principio di tutte le cose è il fuoco, questa in realtà è una metafora che spiega una unità che sorregge il divenire, ma che non è mai identica a se stessa, è in continuo divenire in grandezza, in colore, in odore, in calore, in lucentezza, in movimento, ecc. ma al contempo è unica e governa tutte le cose.
Eraclìto vede l’umanità divisa in pochi “svegli” e molti “dormienti”. Gli svegli coloro che vogliono approfondire le cose e che vedono vitale la presenza dei contrari per l’armonia, i dormienti quelli che vedono i contrari invece come prevaricatori e distruttori dell’armonia. Il divenire è il legame che unisce gli opposti. Esiste una unità di fondo e un’armonia nascosta, una legge eterna. Il fuoco come archè o metafora del lògos, dell’unità che sorregge il molteplice ma è anche metafora della stabilità che regge il divenire.
Gli svegli son consapevoli della verità e che non è Eraclìto, ma il lògos da loro ascoltato che suggerisce la verità delle cose. I dormienti stanno in superficie, ingenuamente non credono nella necessità dei contrasti, vivono schiavi della loro ignoranza.


La dottrina dei contrari

« Polemos è padre di tutte le cose, di tutte è re; e gli uni disvela come dèi e gli altri come uomini, gli uni fa schiavi gli altri liberi. »



Ares è il dio della guerra e della lotta intesa come sete di sangue.
Polemos (nella mitologia greca, era il demone della guerra) è padre di tutte le cose per cui gli enti esistono solo nella contesa che esiste e che impedisce la prevaricazione. La realtà è armonia dei contrari e divenire incessante”.
La dottrina dell'unità dei contrari è forse l'aspetto più originale del pensiero filosofico eracliteo. La legge segreta del mondo risiede nel rapporto di interdipendenza di due concetti opposti (fame-sazietà, pace-guerra, amore-odio ecc.) che, in quanto tali, lottano fra di loro ma, nello stesso tempo, non possono fare a meno l'uno dell'altro, poiché vivono solo l'uno in virtù dell'altro: ciascuno dei due infatti può essere definito solo per opposizione, e niente esisterebbe se allo stesso tempo non esistesse anche il suo opposto. Così, ad esempio, una salita può essere pensata come una discesa da chi vi si trova in cima.
Tra i contrari si crea una sorta di lotta. In questa dualità, fra i contrari (polemos) sempre in guerra in superficie, vede però un’armonia in profondità. Eraclìto vide quello che lui definiva il logos indiviso, la legge universale della Natura.
Ed è proprio la dottrina dei contrari che fa di Eraclìto il fondatore di una logica degli opposti, antitetica a quella aristotelica e fondata sulla legge del divenire della realtà. In essa, infatti, tesi e antitesi (essere e non-essere) sono una sintesi contraddittoria e permanente nella realtà che solo così può divenire, attraverso i suoi due coessenziali aspetti ("nello stesso fiume scendiamo e non scendiamo"; "siamo e non siamo"); ed è antitetica alla logica aristotelica perché opposta al suo principio di non contraddizione e del terzo escluso ("Il mare è l'acqua pura e impura: per i pesci è potabile e gli conserva la vita, per gli uomini è imbevibile e mortale").


Pitagora

(Samo, 570 a.C. circa – Metaponto, 495 a.C. circa)
Pitagora è stato un matematico, legislatore, filosofo, astronomo, scienziato e politico greco antico secondo quanto tramandato dalla tradizione. Egli viene ricordato come fondatore storico della scuola a lui intitolata, nel cui ambito si svilupparono le conoscenze matematiche e le sue applicazioni come il noto teorema di Pitagora. Il suo pensiero ha avuto importanza per lo sviluppo della scienza occidentale, perché ha intuito per primo l'efficacia della matematica per descrivere il mondo.
La scuola pitagorica, appartenente al periodo presocratico, fu fondata da Pitagora a Crotone, nella Magna Grecia (colonia delle Grecia) intorno al 530 a.C., sull'esempio delle comunità orfiche e delle sette religiose d'Egitto e di Babilonia, terre che, secondo la tradizione, egli avrebbe conosciuto in occasione dei suoi precedenti viaggi di studio.
Era una scuola a tutti gli effetti, come le nostre, non all’aria aperta, ma con aule, banchi e professori. Gli studenti erano però tenuti al massimo segreto su ciò che vi facevano e su ciò che imparavano, la scuola era una vera e propria setta religiosa. Con i numeri si esprimeva e si spiegava tutto e si metteva “ordine” (Cosmo in greco) in ogni cosa. Era l’uomo che intervenendo malamente (perché ignorante) creava il “disordine” (Caos in greco). Di fatto in questa scuola si sviluppò lo studio della Matematica e della Geometria e di molte altre cose, che per fortuna non rimasero segrete perché uno studente “traditore” le divulgò e divennero patrimonio di molti altri filosofi (i Pitagorici) che le utilizzarono per proseguire nella loro ricerca della Verità sulle cose e sull’Uomo.


I Pitagorici

Pochi sono gli elementi certi della dottrina pitagorica, tra questi quello della Metempsicosi o trasmigrazione delle anime. Credenza, predicata poi anche da Platone, per la quale l’anima vaga da un corpo all’altro, incarnandosi di volta in volta in ciascuno di essi.
La scuola di Crotone ereditò dal suo fondatore la dimensione misterica ma anche l'interesse per la matematica, l'astronomia, la musica e la filosofia. L'originalità della scuola consisteva infatti nel presentarsi come setta mistica-religiosa, comunità scientifica ed insieme partito politico aristocratico che sotto questa veste governò direttamente in alcune città dell'Italia meridionale. La coincidenza dei tre diversi aspetti della scuola pitagorica si spiega con il fatto che l'aspetto mistico nasceva dalla convinzione che la scienza libera dall'errore, che era considerato una colpa, e si liberava dal peccato dell'ignoranza e quindi, attraverso il sapere ci si purificava e ci si avvicinava a Dio, l'unico che possiede tutta intera la verità: infatti l'uomo è "filosofo", può solo amare il sapere, desiderarlo ma mai possederlo del tutto.
Infine la partecipazione alla scuola, riservata a spiriti eletti, implicava che gli iniziati che la frequentavano avessero disponibilità di tempo e denaro per trascurare ogni attività remunerativa e dedicarsi interamente a complessi studi: da qui il carattere aristocratico del potere politico che i pitagorici ebbero fino a quando non furono sostituiti dai regimi democratici. La scuola dei pitagorici ci interessa perché può mettersi in confronto con Anassimandro e al suo concetto di armonia fra le cose indeterminate e al concetto di conflitto o contrasto fra quelle determinate quando entrano a far parte della Physis, cioè della Natura.
I pitagorici si accorgono che c’è un’armonia nell’universo che è quella dei Numeri o delle “note” anch’esse esprimibili in numeri, cioè un’armonia numerica. Essi quindi individuano l’archè nel Numero, cioè il principio di tutte le cose nel Numero, non nel senso che dal numero hanno origine tutte le cose, ma che i numeri regolano e spiegano l’armonia fra tutte le cose che esistono nell’universo. Per esempio l’armonia degli accordi musicali che sono esprimibili come rapporti numerici armoniosi e gradevoli e che spiegano che quando questi non sono gradevoli o sono stridenti è perché i rapporti numerici fra loro non rispettano le precise regole matematiche.
Quindi i pitagorici individuano l’archè nel Numero non come principio creatore, perché per i greci non esiste il concetto di creazione ed in particolare di una possibilità di creazione dal nulla (verrà solo molto dopo con il cristianesimo), ma come spiegazione dell’armonia fra le stagioni, fra il giorno e la notte, fra i pianeti e le stelle, ecc. Quindi l’armonia si può recuperare guardando al numero.
Aristotele, 200 anni dopo, spiegherà che “per i pitagorici i numeri sono principi di tutte le physis. Gli elementi (stoichèia) dei numeri sono gli elementi di tutti gli enti, sì che tutto l’universo  è armonia e numero”. “Il Numero Uno è la Monade (ultima unità indivisibile - da monos che significa "uno", "singolo", "unico") principio di tutte le cose. I numeri prescindono dalle determinazioni sensibili degli enti, sì che rispetto alla configurazione  numerica si ricompone  l’armonia”.
Per Anassimandro le determinazioni sono “colpevoli” e devono accettare che la necessità, insita nell’ordine del tempo, cancelli ogni determinazione, ricostituendo l’armonia originaria dell’àperion. Quando tutte le cose saranno scomparse si ritornerà all’indistinto. Per i pitagorici invece ciascuna determinazione ricondotta alla propria originalità ed essenzialità numerica diventa “giusta”, si fa armonica e capace di inserirsi nell’armonia. L’Uno è ciò che vi è di identico in ogni determinazione.

Dottrine filosofiche della Scuola Pitagorica (sintesi)

La scuola viene da tutti gli storici definita progressista infatti le sue idee si affermeranno solo molti secoli dopo.

Numero

La dottrina più importante dei pitagorici è il numero (intero), considerato da loro arché. Essi non lo consideravano un'entità astratta bensì concreta; i numeri inoltre venivano visti come grandezze spaziali, aventi una stessa estensione e forma ed erano infatti rappresentati geometricamente. Non bisogna dimenticare l'ispirazione religiosa e morale che era alla base del pitagorismo. Quest'ultimo intendeva la scienza matematica come mezzo di purificazione dell'anima, che era intrappolata nel corpo. Si conferiva al numero quindi, un significato mistico, che andava oltre a quello scientifico. Secondo la scuola, essendo il mondo costituito da numeri e dunque completamente misurabile (nei suoi vari fenomeni, in biologia, in astronomia, in musica, in fisica), la comprensione dei numeri consente la comprensione dell'esistenza stessa. La "misurabilità" del mondo conferisce alla realtà, in particolar modo alla natura, ordine e armonia.
Poiché tutta la realtà è riconducibile al numero, anche il principio primo è un numero: secondo i pitagorici esiste una coppia di principi.
·         L' Uno, o principio limitante
·         La Diade, o principio di illimitazione
Tutti i numeri risultano da questi due principi: dal principio limitante si hanno i numeri dispari, da quello illimitato i numeri pari. Una rappresentazione grafica di questi principi è la seguente.
I numeri pari, così disposti, sono "aperti", danno l'idea dell'illimitatezza, e dunque erano considerati imperfetti, secondo la concezione di limite come bellezza.
Al contrario i numeri dispari sono chiusi, limitati, e dunque perfetti.
Poiché i numeri si dividono in pari e impari, e poiché i numeri rappresentano il mondo, l'opposizione tra i numeri si riflette in tutte le cose. La divisione tra i numeri porta quindi ad una visione dualistica del mondo, e la suddivisione della realtà in categorie antitetiche.
Sono state individuate 10 coppie di opposti, conosciuti come opposti pitagorici.

Gli opposti pitagorici:




Numeri importanti

  • 1, o Monade. Indica l'Uno, il principio primo. Considerato un numero né pari né dispari, ma pari-mpari. Geometricamente rappresenta il punto.
  • 2, o Diade. Femminile, indefinito e illimitato. Rappresenta l'opinione (sempre duplice) e geometricamente, la linea.
  • 3, o Triade. Maschile, definito e limitato. Geometricamente rappresenta il piano.
  • 4, o Tetrade. Rappresenta giustizia, in quanto divisibile equamente da entrambe le parti. Geometricamente rappresenta una figura solida.
  • 5, o Pentade. Rappresenta vita e potere. La stella iscritta nel pentagono era il simbolo dei pitagorici.
  • 10, o Decade. Numero perfetto. Infatti secondo la loro concezione astronomica 10 erano i pianeti, e questo numero veniva rappresentato con il tetraktys: il triangolo equilatero di lato 4 sul quale veniva fatto il giuramento di adesione alla scuola. Questo triangolo ebbe un influsso importante persino nell'iconografia paleocristiana dove lo stesso triangolo verrà rappresentato con un occhio al centro. Inoltre il 10 "contiene" l'intero universo poiché è dato dalla somma di 1+2+3+4 in cui l'1 rappresenta il punto geometrico, 2 sono i punti necessari per individuare la linea, 3 sono i punti necessari per individuare un piano e 4 per individuare un solido.

Numeri figurati e geometria

I Pitagorici basavano anche la geometria sulla teoria dei numeri interi. Le figure geometriche erano infatti da essi concepite come formate da un insieme discreto di punti, indivisibili ma dotati di una certa grandezza. Esistevano quindi strette relazioni tra i numeri e le forme realizzabili con il corrispondente numero di punti. Un residuo delle concezioni pitagoriche è ancora nella nostra terminologia quando parliamo di numeri quadrati: il 25, ad esempio era considerato quadrato perché disponendo 25 punti in 5 file di 5 si poteva realizzare la forma di un quadrato. I pitagorici non si limitavano però ai numeri quadrati. Consideravano anche i numeri triangolari (ottenuti sommando interi consecutivi a partire da 1; erano cioè triangolari i numeri 1, 3, 6, 10, 15, ...), i numeri gnomoni, ossia i numeri dispari (con i quali si poteva formare una figura costituita da due bracci eguali ortogonali collegati da un punto), numeri poligonali e così via.
Tra i vari numeri e le figure corrispondenti, sussistevano relazioni allo stesso tempo aritmetiche e geometriche: ad esempio sommando due numeri triangolari consecutivi si ottiene un quadrato; sottraendo da un quadrato il quadrato immediatamente minore si ottiene uno gnomone; sommando un certo numero di gnomoni consecutivi a partire da 1 si ottiene un quadrato.
Tutta la matematica pitagorica entrò in crisi in seguito alla scoperta di grandezze incommensurabili. Tale scoperta, avvenuta all'interno della scuola e attribuita in genere a Ippaso di Metaponto, impediva infatti di considerare tutte le grandezze come multiple della stessa grandezza punto.

Metempsicosi

Tra le prime dottrine filosofiche che si possono attribuire alla scuola pitagorica troviamo quella della metempsicosi, cioè della trasmigrazione dell'anima, dopo la morte fisica, in corpi di animali o di altri uomini. Tale dottrina era anche condivisa dagli orfici.

Anatomia

I pitagorici rivoluzionarono la concezione dell'anatomia umana. Introdussero l'encefalocentrismo, letteralmente il cervello organo centrale. Furono infatti i primi a dare importanza a questo organo poiché prima, già con gli egizi, era diffusa l'idea che attribuiva tutte le funzioni vitali al cuore. Inoltre affermarono che tutte le parti del corpo fossero unite da una sovrannaturale armonia, la quale componeva l'anima.

La musica

Molta importanza ebbe la musica, definita "l'armonia dell'universo". Con la musica, secondo Pitagora si spiegherebbero gli astri, i tempi di gestazione e il tempo in generale e anche lo stesso numero si baserebbe sulla musica. Inoltre, sempre secondo la scuola, ogni pianeta emetterebbe un suono nel muoversi e la composizione dei suoni di tutti i pianeti (che, secondo la scuola, erano 10) produrrebbe la melodia perfetta.

La sfera


La scuola aveva una profonda venerazione verso la sfera. Questo solido era la rappresentazione materiale dell'Armonia. Ciò era dovuto all'osservazione della caratteristica della sfera: tutti i punti sono equidistanti dal centro che rappresenta il fulcro.

Concezione astronomica


La concezione astronomica è uno degli aspetti più futuristi della scuola. Pitagora infatti aveva già una concezione eliocentrica. Pensava infatti che al centro dell'universo stesse un immenso fuoco, chiamato Hestia, chiara la similitudine con il sole anche se esso secondo tale dottrina era considerato una enorme lente che rifletteva il fuoco e dava calore a tutti gli altri pianeti che per l'appunto giravano attorno ad esso. Quest'ultimi, come già scritto sopra, erano 10 (forse per raggiungere il numero considerato perfetto): il cielo delle stelle fisse, Giove, la Luna, Marte, Mercurio, Saturno, la Terra, Venere e infine l'antiterra. L'antiterra aveva come funzione il completamento; con questo possiamo spiegare il significato della parola da loro coniata kosmos che significava ordine.
Questa dottrina non ebbe però seguito poiché venne fortemente ostacolata dal sistema geocentrico e venne ripresa, seppur con svariate correzioni, soltanto da Nicolò Copernico nel XVI secolo.

Esponenti

Pitagora divise i pitagorici in due gruppi:
  • I matematici (mathematikoi), ovvero la cerchia più stretta dei seguaci, i quali vivevano all'interno della scuola, si erano spogliati di ogni bene materiale e non mangiavano carne. Ai matematici, gli unici ammessi direttamente alle lezioni di Pitagora, era imposto l'obbligo del silenzio e del segreto, in modo che gli insegnamenti impartiti all'interno della scuola non diventassero di pubblico dominio;
  • Gli acusmatici (akusmatikoi), ovvero la cerchia più esterna dei seguaci, ai quali non era richiesto di vivere in comune, o di privarsi delle proprietà e di essere vegetariani.
Secondo la tradizione, la scuola pitagorica sopravvisse al suo fondatore e contò più di 218 allievi maschi.

Donne pitagoriche

Sempre la tradizione vuole che le donne pitagoriche più famose fossero 17. Fra queste si ricorda Timica, moglie di Millia di Crotone.
La comunità pitagorica ha in parte innovato le tradizioni del mondo classico greco, affermando che la donna ha il riconoscimento di un proprio mondo interiore. Pitagora, infatti, rendeva edotte le sue allieve sulle questioni filosofiche da lui trattate poiché le riteneva dotate di ottima intuizione e di spirito contemplativo. Non aderì dunque allo stereotipo della donna incolta e subalterna, relegata alle occupazioni domestiche.
Pitagora stesso, narra Aristosseno, apprese gran parte delle dottrine morali ed i segreti dell'ascesi e della theurgia da Temistoclea, sacerdotessa di Delfi. Clemente Alessandrino nelle sue Stromata attesta l'eccellenza delle donne pitagoriche.

Parmenide di Elea (Elea, 515 a.C.450 a.C.)

Parmenide è stato un filosofo presocratico. Fu il maggiore esponente della scuola eleatica. Filosofo “venerando e terribile”, secondo la descrizione di Platone, detto anche il Filosofo dell’essere e della stabilità grazie alla sua massima «l'essere è, e non può non essere», «il non-essere non è, e non può essere».
Parmenide afferma che l’uomo scopre la Verità (alètheia) attraverso due vie, quella della Ragione e quella dei Sensi. La prima porta alla Verità tutta tonda, la seconda all’Illusione perché é solo una opinione (doxa).
Con queste parole Parmenide intende affermare che niente si crea dal niente, e nulla può essere distrutto nel nulla.
Già i primi filosofi greci avevano cercato l'origine (archè) della mutevolezza dei fenomeni in un principio statico che potesse renderne ragione, non riuscendo a spiegarsi il divenire. Ma i cambiamenti e le trasformazioni a cui è soggetta la natura, tali per cui alcune realtà nascono, altre scompaiono, secondo Parmenide non hanno motivo di esistere, esse sono pura illusione.
La vera natura del mondo, il vero essere della realtà, è statico e immobile. A tali affermazioni Parmenide giunge promuovendo per la prima volta un pensiero basato non più su spiegazioni mitologiche del cosmo, ma su un metodo razionale, servendosi in particolare della logica formale di non-contraddizione, da cui si traggono le seguenti conclusioni:
  1. L'Essere è immobile perché se si muovesse sarebbe soggetto al divenire, e quindi ora sarebbe, ora non sarebbe. Inoltre non può andare dove lui non c’è perché il nulla non esiste.
  2. L'Essere è Unico, Finito e Compiuto, cioè  privo di imperfezioni e identico in ogni sua parte come una sfera perfetta sempre uguale a sé stessa nello spazio e nel tempo, chiusa e finita (per gli antichi greci il finito era sinonimo di perfezione).
  3. L'Essere è eterno perché non può esserci un momento in cui non è più, o non è ancora: se l'essere fosse solo per un certo periodo di tempo, a un certo momento non sarebbe, e si avrebbe contraddizione. L’Essere è eterno, cioè senza la dimensione tempo.
  4. L'Essere è dunque ingenerato e imperituro, cioè immortale, poiché in caso contrario implicherebbe il non essere: la nascita significherebbe essere, ma anche non essere prima di nascere; e la morte significherebbe non essere, ovvero essere solo fino a un certo momento.
  5. L'Essere è indivisibile, perché altrimenti richiederebbe la presenza del non-essere come elemento separatore.
  6. L'Essere è immutabile, non può cambiare. Infatti in cosa si può mutare l’Essere? Se esiste solo lui e il “diverso da lui” è il “non essere” che non esiste? Fuori dell'Essere non può esistere nulla, perché il non-essere, secondo logica, non è, per sua stessa definizione.
Il divenire attestato dai sensi, secondo cui gli enti ora sono e ora non sono, è una mera illusione (che appare ma in realtà non è). La vera conoscenza dunque non deriva dai sensi, ma nasce dalla ragione. Parmenide si limita ad affermare che gli uomini si lasciano guidare dall'opinione (doxa), anziché dalla verità, ossia giudicano la realtà in base all'apparenza, secondo procedimenti illogici. Compito del filosofo è unicamente quello di rivelare la nuda verità dell'Essere nascosta sotto la superficie degli inganni.
La fiducia di Parmenide in un sapere completamente dedotto dalla ragione, e viceversa la sua totale sfiducia nei confronti dei sensi e di una conoscenza empirica, fa di lui un filosofo profondamente razionalista. Esiste una identità fra pensiero ed essere, il pensiero non può pensare il nulla, Pensare ed Essere, sono la stessa cosa. Posso pensare solo ciò che è. La molteplicità e il divenire sono pura illusione e parvenza.
“Saranno tutte e soltanto parole quanto i mortali hanno stabilito, convinti che fosse vero: nascere e perire, essere e non essere, cambiare luogo e mutare il luminoso colore”.
Ma come valutare queste caratteristiche dell’Essere così come sono definite da Parmenide, caratteristiche che privilegiano il pensiero razionale e lasciano fuori dalla porta i nostri sensi? Allora tutto è “non vero”. Non esiste la molteplicità dell’essere, non esistono cioè gli oggetti e le persone che ci stanno attorno perché cambiano comunque nel tempo e si possono muovere nello spazio, cioè mutano. Chi ha ragione? La Ragione o i Sensi? Con Parmenide assistiamo alla sfida più radicale che la filosofia ha rivolto al comune modo di pensare degli uomini.
Per Parmenide: l’essere è immutabile, eterno, imperituro, immobile, unico e ingenerato, non può esistere il divenire e la molteplicità, i sensi attestano una pura parvenza, un’illusione.

Zenone di Elea (489 a.C.431 a.C.)


È allievo di Parmenide e della Scuola eleatica fondata dal suo maestro ed è noto per la sua teoria dei paradossi. Difende cioè le dottrine di Parmenide confutando le tesi degli avversari. Usa il metodo della dialettica che consiste nell’ammettere in via di ipotesi l’affermazione dell’avversario, per ricavarne conseguenze che la confutano. Fa ricorso ai famosi paradossi (dal greco para – contro e doxa – opinione) per dimostrare che il divenire non esiste, è tutta parvenza e inganno dei nostri sensi, altrettanto la molteplicità dell’essere.
È conosciuto soprattutto per i suoi paradossi formulati in relazione alla tesi della impossibilità del moto. Oggi sono conosciuti con il nome di paradossi di Zenone. Tra di essi il più noto è "Il paradosso di Achille e la tartaruga".
È il paradosso più noto e afferma che se Achille (detto "pie' veloce") venisse sfidato da una tartaruga nella corsa e concedesse alla tartaruga un piede di vantaggio, egli non riuscirebbe mai a raggiungerla, dato che Achille dovrebbe prima raggiungere la posizione occupata precedentemente dalla tartaruga che, nel frattempo, sarà avanzata raggiungendo una nuova posizione che la farà essere ancora in vantaggio; quando poi Achille raggiungerà quella posizione nuovamente la tartaruga sarà avanzata precedendolo ancora. Questo stesso discorso si può ripetere per tutte le posizioni successivamente occupate dalla tartaruga e così la distanza tra Achille e la lenta tartaruga pur riducendosi verso l'infinitamente piccolo non arriverà mai ad essere pari a zero. In questo paradosso, come in tutti gli altri, il fine è quello di dimostrare che accettare la presenza del movimento nella realtà implica contraddizioni logiche ed è meglio quindi, da un punto di vista puramente razionale, rifiutare l'esperienza sensibile ed affermare che la realtà è immobile. Questi paradossi implicano anche il concetto di infinita divisibilità dello spazio ed è questa la ragione per cui hanno ricevuto una notevole attenzione da parte dei matematici.

Antifonte (Atene, 480 a.C.– Atene, 410 a.C.)

Vissuto ad Atene nella seconda metà del V secolo a.C., autore di vari scritti, sulla verità, sulla concordia, sulla politica.
Secondo Antifonte le norme dettate dalle leggi sono frutto di un accordo, tanto è vero che un individuo, se le infrange, ma non è scoperto, non ne subisce alcun danno.
Le norme dettate dalla natura, se sono infrante, danneggiano colui che le infrange.

La legge come divisione tra gli uomini e le città.

La tesi di Antifonte è che molte cose dettate dalla legge contrastano e pongono limiti e ostacoli a quanto è dettato dalla natura, per esempio prescrivendo ai vari organi di senso ciò che debbono fare o non fare.
La critica che Antifonte rivolse alla legge intesa come nomos (legge, norma legale) fu quello del particolarismo. Ogni città ha la sua legge, e spesso ciò che è giusto e legale qui, è ingiusto ed illegale là. L'eccesso legislativo è dunque un fattore di divisione, un'esasperazione delle differenze, un contrasto artificioso tra gli uomini. Nessuna legislazione particolare, portata all'estremo cavilloso, può considerarsi universale, e quindi è davvero utile metter fine alle incomprensioni e alle guerre.

Sul piano delle funzioni naturali, invece, non sembrano sussistere differenze tra gli uomini: sia Greci, sia barbari, tutti respiriamo mediante la bocca e le narici. L'appello alla natura  sembrava spingere Antifonte verso una direzione egualitaria, anche se  ad Atene, esisteva una netta disuguaglianza tra i cittadini liberi e gli schiavi e i meteci, ossia gli stranieri residenti in città. Antifonte il sofista è anche noto per il suo tentativo di risolvere il problema della quadratura del cerchio.
L'area del cerchio è determinata costruendo una successione di poligoni che assomigliano sempre di più al cerchio. Ad esempio, una successione di poligoni regolari con numero crescente di lati: in figura, un pentagono, un esagono e un ottagono. A seconda che si scelgano poligoni iscritti o circoscritti nella circonferenza, l'area di questa risulterà essere approssimata inferiormente o superiormente. Entrambe le scelte portano comunque al limite all'area del cerchio.

Riflessioni (di don Claudio Crescimanno)

Partiamo dalle considerazioni di Eraclìto a proposito dei dormienti. In effetti anche noi possiamo considerarci dei dormienti quando prendiamo le cose così come sono o meglio come ci vengono, senza preoccuparci di nient’altro. È il normale atteggiamento di maggiore comodità, ovvero di minore resistenza alla “fatica” di vivere.
Accostarci alle cose, accostarci alla realtà, vivere la nostra vita di tutti i giorni va nella direzione del punto di minore resistenza che vuole anche dire una modalità meno ansiogena o meno difficile.
La storia della Filosofia invece nasce perché alcune persone si sono fatte delle domande proprio su problemi nei quali i punti di resistenza sono maggiori. Hanno cioè scelto la strada più difficile, quella in salita per rispondere al vero, profondo e radicale interrogativo, quello che secoli dopo verrà formulato sinteticamente da Leibniz matematico, filosofo, scienziato (1646): perché esiste qualche cosa?, perché non c’è il nulla?  Perché il Nulla non possiamo né pensarlo, né tanto meno spiegarlo a parole?
Ci rendiamo però conto che non può essere così, proprio per la legge dei contrari che si aiutano a vicenda o che si illuminano a vicenda (di cui ci parlava Eraclìto).
In realtà le cose ci sono, esistono, diverse da me, ma esistono. Debbo allora rendere ragione di questo attraverso un’indagine, intellettualmente rigorosa, cosa che mi costringe ad abbandonare i Miti, che pure hanno aiutato nella preistoria del pensiero a darci qualche ragione della vita, ma che ora non soddisfano più.
È la scelta di adottare una indagine seria e intellettualmente rigorosa, cioè razionalmente rigorosa, che oggi ci fa apprezzare ancora di più il Genio dei Greci.
Le domande che si pongono sono: perché le cose ci sono,
perché le cose sono come sono e non sono in un altro modo.
In questo “essere come sono e non in un altro modo” si arriva a questo contrasto apparentemente insanabile fra due posizioni: il Divenire e l’Essere
Per capire diciamo che sono entrambe vere e al contempo entrambe false. Con buona pace di Eraclìto, diciamo che il Divenire non può essere la legge suprema del mondo. Infatti io sono diverso da quando avevo 10 anni, ma sono contemporaneamente lo stesso di allora.
Quindi è vero che le cose cambiano in continuazione, ma è anche vero che c’è un permanere, c’è una stabilità, c’è una solidità che io sperimento anche su me stesso, ma che constato anche nelle altre persone come negli animali, nei vegetali, nei minerali, ecc. cioè nella realtà che mi circonda. Io sperimento questo.
D’altra parte con buona pace di Parmenide, i sensi non ci ingannano, ma ci dicono che l’acqua è una cosa diversa dal bicchiere che la contiene, che il libro che ho in mano è diverso dalla matita che ho appoggiato sul tavolo e che questa è diversa dalla sedia sulla quale sono seduto, come io sono diverso da chi mi sta di fronte e così via e soprattutto che tutte queste cose non sono io.
Non è quindi convincente Parmenide quando mi dice che l’Essere è unico, immutabile, indistinto, e che esiste solo lui e non c’è nient’altro diverso da lui. Così come quando dice che dentro l’essere ci sono tutte le cose che  esistono, come fosse un sacco al di fuori del quale non esiste nulla, cosa che non riusciamo neanche ad immaginare.
Per Parmenide nell’essere sono racchiuse tutte le cose che esistono, ma non posso accettare di essere un blocco unico con tutte le cose che esistono perché so di essere io e di non essere tutte le altre cose. Ci deve essere un momento di distinzione, di separazione, di differenza, di opposizione (nel senso che io non sono un’altra cosa che di fatto mi si contrappone).
È a questo punto necessario che qualcuno arrivi a spiegarci in cosa ciascuna teoria ha ragione e in cosa ciascuna teoria ha torto. In altre parole serve qualcuno che sappia mettere insieme armonicamente e senza contraddizioni l’Essere e il Divenire, l’Uno e il Molteplice, l’Immutabilità e il Movimento. Qualcuno che ci spieghi il fatto che io sono io e non sono un altro e che comunque, io e questo altro da me, siamo tutti e due parte di qualche cosa e insieme siamo diversi per qualche cosa. Se questo qualcuno non riesce a spiegarlo vorrebbe dire che la realtà è incomprensibile.
È da questa preoccupazione di capire qual è la Verità che nasce il Pensiero occidentale, nasce la nostra cultura, nasce la nostra civiltà. Questi grandi temi della nostra civiltà solo noi occidentali li abbiamo affrontati e sono essi alla base della ricchezza, della grandezza e della perennità del nostro pensiero e del nostro ragionare.
È una ricchezza che stiamo sempre più sottovalutando e che invece rappresenta le grandi linee del nostro pensiero che hanno risolto i grandi temi del senso del mondo, del senso della vita, del senso dell’uomo.
Stiamo quindi rivivendo insieme questa grande avventura, cioè il ripercorrere nella storia dei secoli il pensiero che ha formato anche quello che viviamo nella quotidianità e che ha qui le sue radici. Noi forse non ce ne accorgiamo e non sappiamo come sono legate quelle cose alle nostre cose, ma lo andremo a scoprire strada facendo. L’importante è non dimenticare le nostre radici, anzi approfondirle.

Estratto da “Rheinische Post”,17.03. 1985 – Joseph Ratzinger


Oggi in genere non c’è molto interesse per la storia. Perché rivolgerci al passato – si dice. Non c’è da perder tempo a considerare il passato. Il passato è passato, l’oggi è davanti a noi.

Questo aimè fa perdere la memoria e ci conduce velocemente alla trascuratezza e alla perdita di consapevolezza. Questo ci porta ad accreditare al passato una storia di oppressione e di deviazioni che ci fanno credere che soltanto ribellandoci a tutto ciò che è stato, e che è stato fatto, sia possibile costruire un mondo migliore. Quando l’uomo non può amare più nulla, quando l’uomo crede di non poter ricevere più niente dalla storia che valga la pena di essere trasmesso nel tempo, il mondo stesso sarà una catena di amare disillusioni e contrapposizioni.


Buttare via il “cattivo del passato” insieme a quanto di buono invece c’è stato e che è stato spesso costruito con impegno e fatica, sembra essere una condanna dalla quale facciamo fatica a liberarci. Una rivoluzione segue all’altra e non ci insegna niente. Il passato è cattivo per definizione. Buono è solo il nuovo? [Ndr]

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