I primi passi della filosofia sono stati compiuti nelle
colonie della Ionia, sulle vivaci coste dell’Asia Minore (l’attuale Turchia),
come Mileto ed Efeso. Se le città del continente, lontane dal contatto con
altre popolazioni, rimasero chiuse e vincolate all'orizzonte cosmico e
religioso tradizionale, le città coloniali lambite dal mare sono invece
caratterizzate da un maggior dinamismo anche sul piano intellettuale. Il fatto
stesso che fossero terre di confine (e quindi a contatto con credenze e costumi
diversi) contribuì a fare di queste aree zone in cui era molto sentito il
problema della propria identità e della posizione del mondo. Un modo per
risolvere questo problema può essere rintracciato nella ricerca di ciò che
rende il mondo, al di là della varietà delle sue manifestazioni, una totalità
unitaria.
Il tempo
ciclico dei Greci
I Greci avevano una percezione ciclica del tempo, secondo un’eredità che risale alle culture contadine arcaiche: un
eterno avvicendarsi delle cose, analogo al susseguirsi costante delle stagioni e al tempo del
cielo.
I pianeti tornano periodicamente a occupare le medesime
posizioni e il cosmo segue un
ritmo scandito dal Grande Anno, della durata di circa
26.000 anni, al termine del quale tutto ritorna
esattamente com’era. Il mondo è dunque eterno
e si ripete; periodicamente viene distrutto e periodicamente rinasce. Ciò che
succederà è già stato, ma solo gli dei ne hanno piena consapevolezza, e da qui
deriva la loro onniscienza. Anche le vicende dell’umanità sono influenzate e
scandite dal moto circolare delle sfere celesti, quindi sono vincolate a un ritmo
periodico.
Questa dottrina del ritorno ciclico di tutte le cose percorre
l’intera civiltà greca, tanto che ancora nel IV secolo d.C. il filosofo
neopitagorico Nemesio di Emesa può dire: «Ogni città, ogni villaggio, ogni campo
rinascerà tale e quale. E questa rinascita dell’universo non avrà luogo una
volta sola, ma più e più volte, senza fine, per tutta l’eternità. Fra gli dei, coloro
che non sono soggetti alla distruzione, osservando l’andamento di un periodo
dato, da esso potranno derivare tutto ciò che accadrà in tutti i periodi
successivi. Non ci sarà mai cosa nuova rispetto a ciò che è stato dato in passato: tutto si ripeterà nei minimi dettagli».
Il serpente che divora la propria coda, chiamato “ouroboro”,
è un’immagine del tempo che ritorna su se stesso, simbolo ricorrente della
ciclicità. L’esempio qui riportato è tratto da un antico papiro greco.
(640
a.C./625 a.C. – circa 547
a.C.) Il presocratico
Talete è il primo filosofo che la storia ricordi e ci è presentato da
Aristotele (in Metafisica, I) proiettato in questa ricerca della
Verità.
"La maggior parte di coloro che primi filosofarono
pensarono che princípi di tutte le cose fossero solo quelli materiali.
Infatti essi affermano che ciò di cui tutti gli esseri sono costituiti e ciò
da cui derivano originariamente e in cui si risolvono da ultimo, è elemento
ed è principio degli esseri, in quanto è una realtà che permane identica pur
nel trasmutarsi delle sue affezioni. E, per questa ragione, essi credono che
nulla si generi e che nulla si distrugga, dal momento che una tale realtà si
conserva sempre. … Talete, iniziatore di questo tipo di filosofia, dice che
quel principio è l’acqua (per questo afferma anche che la Terra galleggia
sull’acqua), desumendo indubbiamente questa sua convinzione dalla
constatazione che il nutrimento di tutte le cose è umido, e che perfino il
caldo si genera dall’umido e vive nell’umido. Ora, ciò da cui tutte le cose
si generano è, appunto, il principio di tutto. Egli desunse dunque questa
convinzione da questo fatto e dal fatto che i semi di tutte le cose hanno una
natura umida e l’acqua è il principio della natura delle cose umide". (Aristotele, Metafisica
983 b)
“Talete di Mileto fu senza
dubbio il più importante tra i primi filosofi. Fu il primo scopritore della
geometria, l'osservatore attento della natura, lo studioso dottissimo delle
stelle”. È comunemente considerato,
da Aristotele
in poi il primo filosofo della storia del
pensiero occidentale. È noto per la
sua ricerca del principio di tutte le cose, di un principio unificatore di
tutte le cose, che lui trovò nell’Acqua. Acqua quindi come principio della
vita.
L'aneddoto di Platone
“[Talete], mentre studiava gli astri e guardava in alto, cadde in un pozzo. Una graziosa e intelligente servetta trace lo prese in giro, dicendogli che
si preoccupava tanto di conoscere le cose che stanno in cielo, ma non vedeva
quelle gli stavano davanti, tra i piedi. La stessa ironia è riservata a chi
passa il tempo a filosofare [...] provoca il riso non solo delle schiave di
Tracia, ma anche del resto della gente, cadendo, per inesperienza, nei pozzi
e in ogni difficoltà” (Platone, Teeteto,
174 a-174 c)
A
una prima lettura, l'aneddoto, oltre a testimoniare gli interessi astronomici di Talete, mostra la
considerazione nella quale, universalmente e in ogni tempo, è tenuto il
filosofo e in generale lo studioso, concentrato nelle proprie riflessioni o
contemplazioni, lontano dalle cose terrene e inadeguato alla quotidianità
della vita, secondo il noto archetipo del «professore distratto». Ma
l'aneddoto contiene molto di più. Per Platone «filosofo è colui che volge
l'anima dal mondo del divenire a quello della verità e dell'essere», due
mondi opposti, essendo il primo il mondo dell'opinione e il secondo quello
dell'intellezione. Così Talete volge gli occhi al cielo poiché lì sono le verità eterne, mentre in terra si
manifestano le apparenze delle cose. Viene così teorizzata
l'esistenza di una realtà "alta" nella quale è assorto il pensiero
del filosofo, contrapposta alla realtà
"bassa" nel quale resta il suo corpo che v'inciampa e cade,
perché di questa realtà non si cura, avendo per lui poco o nessun valore. E
il filosofo di Platone non si cura nemmeno, o guarda con sufficienza e irride
a sua volta l'irrisione della servetta, ossia della gente comune che fa parte
di questa realtà "bassa" alla quale, al contrario di lui, essa è
unicamente attenta, senza comprendere l'importanza della speculazione
filosofica e la banalità della comune opinione.
I cinque teoremi di geometria elementare attribuiti
a Talete:
1.
"Un cerchio è diviso in due aree uguali da
qualunque diametro"
3.
"In due rette che si taglino fra loro, gli angoli
opposti al vertice sono uguali"
4.
"Due triangoli sono uguali se hanno un lato e i due
angoli adiacenti uguali"
5.
"Un triangolo inscritto in una semicirconferenza è
rettangolo"
Anassimandro |
“Principio
degli esseri è l’infinito (àpeiron). Da dove infatti gli esseri hanno
l’origine, ivi hanno anche la distruzione secondo necessità, poiché essi pagano
l’uno all’altro la pena e l’espiazione dell’ingiustizia secondo l’ordine del
tempo”.
L’ Àpeiron è indeterminato, per questo in esso regna
l’armonia fra le cose che essendo indeterminate non confliggono fra loro, ma
una volta che esse si determinano entrano in contrasto fra loro, per cui il
determinarsi delle cose diventa un’ingiustizia. L’esistenza per Anassimandro
diventa un’ingiustizia perché rompe quell’armonia che c’era nell’Àpeiron
indeterminato dove non esiste il contrasto fra le cose. Questa ingiustizia però
poi si placa perché le cose determinate col tempo finiscono e ritorna
l’armonia. Il tempo scorre e fa giustizia. Il tutto comunque avviene nella Physis
e non ci sono elementi esterni ad essa che la possano influenzare.
È allievo di Anassimandro e si chiede cos’è
l‘Àpeiron. Anassimene cerca di spiegarselo pensando che pur essendo Àpeiron indeterminato
è comunque capace di determinare tutte le cose che esistono. Individua per
questo l’Àpeiron nell’aria perché questa è capace di mostrarsi solida, liquida
e gassosa e per Anassimene anche essere la terra stessa e quindi diventare
qualsiasi cosa.
Eraclìto è stato uno dei maggiori pensatori presocratici, il suo pensiero risulta difficile da comprendere ed
è stato interpretato nei modi più diversi a causa del suo stile oracolare e
della frammentarietà nella quale ci è giunta la sua opera. Eraclìto aveva
comunque fama di cripticità già nella sua epoca.
È
stato definito un pensatore solitario e oscuro, ma anche il filosofo del divenire (Panta Rei =
tutto scorre), colui che ha definito essere il fuoco l’archè, cioè il principio
di tutte le cose.
Partiamo dal considerare alcuni frammenti
originali del suo pensiero:
·
“A chi discende
nello stesso fiume sopraggiungono acque sempre diverse”.
·
“Il Dio è giorno notte, inverno estate, guerra
pace, sazietà fame, e muta come il fuoco, quando si mescola ai profumi e prende
nome dall’aroma di ognuno di essi”.
·
“Per quanto tu
possa camminare, e neppure percorrendo intera la via, tu potresti mai trovare i
confini dell’anima: così profondo è il suo lògos”.
·
“Polemos (la
Contesa, la Guerra, il Contrasto dalla quale deriva anche la voce italiana
Polemica) è padre di tutte le cose, di tutte re: e gli uni disvela come dei e
gli altri come uomini, gli uni fa schiavi, gli altri liberi.
·
“Ascoltando non me,
ma il lògos, è saggio convenire che tutto è uno”.
Partiamo da quest’ultima affermazione di
Eraclìto. Come in altri filosofi e pensatori greci c’è sempre questo concetto
del “tutto in uno”. La physis contiene il tutto e tutte le cose sono abitatrici
della physis, dell’Essere, della Luce, cioè abbiamo tutti qualcosa di comune,
per esempio la cittadinanza nella physis. Pure Eraclìto dice “… è saggio
convenire che tutto è uno”. Per quanto diverse e opposte le cose si raccolgono
in una suprema unità.
L’identità delle cose è il loro stesso essere
diverse e opposte. Si può quindi dire che le cose esistono proprio perché sono
diverse e si distinguono o sono distinguibili le une dalle altre. Ciascuna di
esse esiste perché non si fa penetrare dalle altre, oppure che si può dire che
ciascuna cosa non è tutte le altre cose. Un portacenere non è tutte le altre
cose, così un ombrello non è tutte le altre cose, ecc.
Comune a tutte le cose è il “non essere le
altre cose” diverse da loro. Ciò che è comune ad ogni cosa è la “contesa” nella
quale soltanto le cose possono rimanere ciò che sono, non confondersi, non
compenetrarsi ma distinguersi e farsi riconoscere.
Per Anassimandro
è già una “colpa” il voler essere, cioè il voler contrapporsi agli altri
diversi da noi, rompendo l’armonia, ma lo è ancora di più per noi uomini quando
non vogliamo tornare nell’armonia dell’indeterminato per trovarvi la pace, cioè
quando resistiamo alla morte, anzi al solo pensiero della morte. La cosa
diventa ancora più “ingiusta” quando io addirittura cerco di affermarmi
prevaricando gli altri.
Per Eraclìto è il perfetto contrario, è
proprio la contesa che rende “giustizia”. “La giustizia è la stessa contesa in
quanto ogni cosa, per essere ciò che è, ha bisogno di opporsi alle altre”. È
l’Armonia dei contrari, cioè una cosa è perché esiste il suo contrario. Abbiamo
fame perché esiste la sazietà, sappiamo che è giorno perché sperimentiamo la
notte, apprezziamo la pace perché abbiamo sofferto la guerra, conosciamo il
bello perché è in contrasto col brutto, ecc. cioè l’uno esiste grazie
all’altro. Scompare così il problema della prevaricazione, anzi è proprio la
contesa fra una cosa e il suo contrario che impedisce che una prevarichi
sull’altra.
Per
questo Eraclìto sostiene il divenire, perché la gioventù poi diventa vecchiaia,
con la vita sopraggiunge la morte, dopo la pioggia viene il bello, ecc. c’è
quindi una ragione, un lògos che
governa tutte queste cose. Il lògos è una unità di fondo che, dice
Eraclìto, i più non vedono. Sappiamo che lògos
, vuol dire ragione, ma anche discorso, ma anche raccolta, cioè qualcosa
che raccoglie tutto. Quando egli dice che il principio di tutte le cose è il
fuoco, questa in realtà è una metafora che spiega una unità che sorregge il
divenire, ma che non è mai identica a se stessa, è in continuo divenire in
grandezza, in colore, in odore, in calore, in lucentezza, in movimento, ecc. ma
al contempo è unica e governa tutte le cose.
Gli svegli son consapevoli della verità e
che non è Eraclìto, ma il lògos da loro ascoltato che suggerisce la verità
delle cose. I dormienti stanno in superficie, ingenuamente non credono nella
necessità dei contrasti, vivono schiavi della loro ignoranza.
La dottrina dei
contrari
« Polemos
è padre di tutte le cose, di tutte è re; e gli uni disvela come dèi e gli altri
come uomini, gli uni fa schiavi gli altri liberi. »
Ares è il dio della guerra e della lotta intesa come sete di sangue. |
La
dottrina dell'unità dei contrari è forse l'aspetto più originale del pensiero
filosofico eracliteo. La legge segreta del mondo risiede nel rapporto di interdipendenza
di due concetti
opposti (fame-sazietà, pace-guerra, amore-odio ecc.) che, in quanto tali,
lottano fra di loro ma, nello stesso tempo, non possono fare a meno l'uno dell'altro,
poiché vivono solo l'uno in virtù dell'altro: ciascuno dei due infatti può
essere definito solo per opposizione, e niente esisterebbe se allo stesso tempo
non esistesse anche il suo opposto. Così, ad esempio, una salita può essere
pensata come una discesa da chi vi si trova in cima.
Tra
i contrari si crea una sorta di lotta. In questa dualità, fra i contrari (polemos) sempre in guerra in superficie, vede
però un’armonia in profondità. Eraclìto vide quello che lui definiva il logos
indiviso, la legge
universale della Natura.
Ed
è proprio la dottrina dei contrari che fa di Eraclìto il fondatore di una
logica degli opposti, antitetica a quella aristotelica e fondata sulla legge
del divenire della realtà. In essa, infatti, tesi e antitesi (essere e
non-essere) sono una sintesi contraddittoria e permanente nella realtà che solo
così può divenire, attraverso i suoi due coessenziali aspetti ("nello
stesso fiume scendiamo e non scendiamo"; "siamo e non siamo");
ed è antitetica alla logica aristotelica perché opposta al suo principio di non contraddizione
e del terzo escluso ("Il mare è l'acqua pura e
impura: per i pesci è potabile e gli conserva la vita, per gli uomini è
imbevibile e mortale").
Pitagora
(Samo, 570 a.C. circa – Metaponto, 495 a.C. circa)
Era
una scuola a tutti gli effetti, come le nostre, non all’aria aperta, ma con
aule, banchi e professori. Gli studenti erano però tenuti al massimo segreto su
ciò che vi facevano e su ciò che imparavano, la scuola era una vera e propria
setta religiosa. Con i numeri si esprimeva e si spiegava tutto e si metteva
“ordine” (Cosmo in greco) in ogni
cosa. Era l’uomo che intervenendo malamente (perché ignorante) creava il
“disordine” (Caos in greco). Di fatto
in questa scuola si sviluppò lo studio della Matematica e della Geometria e di
molte altre cose, che per fortuna non rimasero segrete perché uno studente
“traditore” le divulgò e divennero patrimonio di molti altri filosofi (i
Pitagorici) che le utilizzarono per proseguire nella loro ricerca della Verità
sulle cose e sull’Uomo.
I
Pitagorici
Pochi sono gli elementi certi della dottrina
pitagorica, tra questi quello della Metempsicosi o trasmigrazione delle anime.
Credenza, predicata poi anche da Platone, per la quale l’anima vaga da un corpo
all’altro, incarnandosi di volta in volta in ciascuno di essi.
La
scuola di Crotone ereditò dal suo fondatore la dimensione misterica ma anche l'interesse per la matematica, l'astronomia, la musica
e la filosofia. L'originalità della scuola
consisteva infatti nel presentarsi come setta
mistica-religiosa, comunità scientifica ed insieme partito politico aristocratico che sotto questa veste governò
direttamente in alcune città dell'Italia meridionale. La coincidenza dei tre
diversi aspetti della scuola pitagorica si spiega con il fatto che l'aspetto
mistico nasceva dalla convinzione che la scienza libera dall'errore, che era
considerato una colpa, e si liberava dal peccato dell'ignoranza e quindi,
attraverso il sapere ci si purificava e ci si avvicinava a Dio, l'unico che
possiede tutta intera la verità: infatti l'uomo è "filosofo", può
solo amare il sapere, desiderarlo ma mai possederlo del tutto.
Infine
la partecipazione alla scuola, riservata a spiriti eletti, implicava che gli
iniziati che la frequentavano avessero disponibilità di tempo e denaro per
trascurare ogni attività remunerativa e dedicarsi interamente a complessi
studi: da qui il carattere aristocratico del potere politico che i pitagorici
ebbero fino a quando non furono sostituiti dai regimi democratici. La scuola dei pitagorici ci
interessa perché può mettersi in confronto con Anassimandro e al suo concetto
di armonia fra le cose indeterminate e al concetto di conflitto o contrasto fra
quelle determinate quando entrano a far parte della Physis, cioè della Natura.
I pitagorici si accorgono che c’è
un’armonia nell’universo che è quella dei Numeri o delle “note” anch’esse
esprimibili in numeri, cioè un’armonia numerica. Essi quindi individuano l’archè nel Numero, cioè il principio di
tutte le cose nel Numero, non nel senso che dal numero hanno origine tutte le
cose, ma che i numeri regolano e spiegano l’armonia fra tutte le cose che
esistono nell’universo. Per esempio l’armonia degli accordi musicali che sono
esprimibili come rapporti numerici armoniosi e gradevoli e che spiegano che
quando questi non sono gradevoli o sono stridenti è perché i rapporti numerici
fra loro non rispettano le precise regole matematiche.
Quindi i pitagorici individuano l’archè nel Numero non come principio
creatore, perché per i greci non esiste il concetto di creazione ed in
particolare di una possibilità di creazione dal nulla (verrà solo molto dopo
con il cristianesimo), ma come spiegazione dell’armonia fra le stagioni, fra il
giorno e la notte, fra i pianeti e le stelle, ecc. Quindi l’armonia si può
recuperare guardando al numero.
Aristotele, 200 anni dopo, spiegherà che
“per i pitagorici i numeri sono principi di tutte le physis. Gli elementi (stoichèia) dei numeri sono gli elementi
di tutti gli enti, sì che tutto l’universo
è armonia e numero”. “Il Numero Uno è la Monade (ultima unità
indivisibile - da monos che significa "uno",
"singolo", "unico") principio di tutte le cose. I numeri
prescindono dalle determinazioni sensibili degli enti, sì che rispetto alla
configurazione numerica si
ricompone l’armonia”.
Per Anassimandro le determinazioni sono
“colpevoli” e devono accettare che la necessità, insita nell’ordine del tempo,
cancelli ogni determinazione, ricostituendo l’armonia originaria dell’àperion. Quando tutte le cose saranno
scomparse si ritornerà all’indistinto. Per i pitagorici invece ciascuna
determinazione ricondotta alla propria originalità ed essenzialità numerica
diventa “giusta”, si fa armonica e capace di inserirsi nell’armonia. L’Uno è
ciò che vi è di identico in ogni determinazione.
Dottrine filosofiche della Scuola Pitagorica (sintesi)
La scuola viene da tutti
gli storici definita progressista infatti le sue idee si affermeranno solo
molti secoli dopo.
Numero
La
dottrina più importante dei pitagorici è il numero (intero), considerato da loro arché. Essi non lo consideravano
un'entità astratta bensì concreta; i numeri inoltre venivano visti come
grandezze spaziali, aventi una stessa estensione e forma ed erano infatti
rappresentati geometricamente. Non bisogna dimenticare l'ispirazione religiosa
e morale che era alla base del pitagorismo. Quest'ultimo intendeva la scienza
matematica come mezzo di purificazione dell'anima, che era intrappolata nel
corpo. Si conferiva al numero quindi, un significato mistico, che andava oltre
a quello scientifico. Secondo la scuola, essendo il mondo costituito da numeri
e dunque completamente misurabile (nei suoi vari fenomeni, in biologia, in astronomia, in musica, in fisica), la comprensione dei numeri
consente la comprensione dell'esistenza stessa. La "misurabilità"
del mondo conferisce alla realtà, in particolar modo alla natura, ordine
e armonia.
Poiché
tutta la realtà è riconducibile al numero, anche il principio primo è un
numero: secondo i pitagorici esiste una coppia di principi.
·
L' Uno, o principio limitante
·
La Diade, o principio di illimitazione
Tutti i numeri risultano da
questi due principi: dal principio limitante si hanno i numeri dispari,
da quello illimitato i numeri pari. Una rappresentazione grafica di
questi principi è la seguente. I numeri pari, così disposti, sono "aperti", danno l'idea dell'illimitatezza, e dunque erano considerati imperfetti, secondo la concezione di limite come bellezza.
Al contrario i numeri dispari sono chiusi, limitati, e dunque perfetti.
Poiché i numeri si dividono in pari e impari, e poiché i numeri rappresentano il mondo, l'opposizione tra i numeri si riflette in tutte le cose. La divisione tra i numeri porta quindi ad una visione dualistica del mondo, e la suddivisione della realtà in categorie antitetiche.
Sono state individuate 10 coppie di opposti, conosciuti come opposti pitagorici.
Gli opposti pitagorici:
Numeri
importanti
- 1, o Monade. Indica
l'Uno, il principio primo. Considerato un numero né pari né dispari, ma pari-mpari.
Geometricamente rappresenta il punto.
- 2, o Diade. Femminile,
indefinito e illimitato. Rappresenta l'opinione (sempre duplice) e
geometricamente, la linea.
- 3, o Triade. Maschile,
definito e limitato. Geometricamente rappresenta il piano.
- 4, o Tetrade.
Rappresenta giustizia, in quanto divisibile equamente da entrambe le
parti. Geometricamente rappresenta una figura solida.
- 5, o Pentade.
Rappresenta vita e potere. La stella iscritta nel pentagono era il simbolo
dei pitagorici.
- 10, o Decade. Numero
perfetto. Infatti secondo la loro concezione astronomica 10 erano i
pianeti, e questo numero veniva rappresentato con il tetraktys: il triangolo
equilatero di lato 4 sul quale veniva fatto il giuramento di adesione alla
scuola. Questo triangolo ebbe un influsso importante persino nell'iconografia
paleocristiana dove lo stesso triangolo verrà rappresentato con
un occhio al centro. Inoltre il 10 "contiene" l'intero universo
poiché è dato dalla somma di 1+2+3+4 in cui l'1 rappresenta il punto
geometrico, 2 sono i punti necessari per individuare la linea, 3 sono i
punti necessari per individuare un piano e 4 per individuare un solido.
Numeri figurati e geometria
I
Pitagorici basavano anche la geometria sulla teoria dei numeri interi. Le
figure geometriche erano infatti da essi concepite come formate da un insieme
discreto di punti, indivisibili ma dotati di una certa grandezza. Esistevano
quindi strette relazioni tra i numeri e le forme realizzabili con il
corrispondente numero di punti. Un residuo delle concezioni pitagoriche è
ancora nella nostra terminologia quando parliamo di numeri quadrati: il
25, ad esempio era considerato quadrato perché disponendo 25 punti in 5
file di 5 si poteva realizzare la forma di un quadrato. I pitagorici non si
limitavano però ai numeri quadrati. Consideravano anche i numeri triangolari
(ottenuti sommando interi consecutivi a partire da 1; erano cioè triangolari i
numeri 1, 3, 6, 10, 15, ...), i numeri gnomoni, ossia i numeri dispari
(con i quali si poteva formare una figura costituita da due bracci eguali
ortogonali collegati da un punto), numeri poligonali e così via.
Tra
i vari numeri e le figure corrispondenti, sussistevano relazioni allo stesso
tempo aritmetiche e geometriche: ad esempio sommando due numeri triangolari
consecutivi si ottiene un quadrato; sottraendo da un quadrato il quadrato
immediatamente minore si ottiene uno gnomone; sommando un certo numero di
gnomoni consecutivi a partire da 1 si ottiene un quadrato.
Tutta
la matematica pitagorica entrò in crisi in seguito alla scoperta di grandezze incommensurabili. Tale scoperta, avvenuta all'interno della scuola e
attribuita in genere a Ippaso di Metaponto, impediva infatti di considerare tutte le grandezze
come multiple della stessa grandezza punto.
Metempsicosi
Tra le prime dottrine
filosofiche che si possono attribuire alla scuola pitagorica troviamo quella
della metempsicosi, cioè della trasmigrazione dell'anima, dopo la morte fisica, in corpi di
animali o di altri uomini. Tale dottrina era anche condivisa dagli orfici.
Anatomia
La musica
Molta
importanza ebbe la musica, definita "l'armonia dell'universo". Con la
musica, secondo Pitagora si spiegherebbero gli astri, i tempi di gestazione e
il tempo in generale e anche lo stesso numero si baserebbe sulla musica.
Inoltre, sempre secondo la scuola, ogni pianeta emetterebbe un suono nel
muoversi e la composizione dei suoni di tutti i pianeti (che, secondo la
scuola, erano 10) produrrebbe la melodia perfetta.
La sfera
La scuola
aveva una profonda venerazione verso la sfera. Questo solido era
la rappresentazione materiale dell'Armonia. Ciò era dovuto
all'osservazione della caratteristica della sfera: tutti i punti sono
equidistanti dal centro che rappresenta il fulcro.
Concezione astronomica
La
concezione astronomica è uno degli aspetti più futuristi della scuola. Pitagora
infatti aveva già una concezione eliocentrica. Pensava infatti che al centro
dell'universo stesse un immenso fuoco, chiamato Hestia, chiara la similitudine
con il sole anche se esso secondo tale dottrina
era considerato una enorme lente che rifletteva il fuoco e dava calore a tutti
gli altri pianeti che per l'appunto giravano attorno
ad esso. Quest'ultimi, come già scritto sopra, erano 10 (forse per raggiungere
il numero considerato perfetto): il cielo delle stelle fisse, Giove, la Luna,
Marte, Mercurio, Saturno, la Terra, Venere e infine l'antiterra. L'antiterra
aveva come funzione il completamento; con questo possiamo spiegare il
significato della parola da loro coniata kosmos che significava ordine.
Questa
dottrina non ebbe però seguito poiché venne fortemente ostacolata dal sistema geocentrico e venne ripresa, seppur con svariate correzioni,
soltanto da Nicolò
Copernico nel XVI
secolo.
Esponenti
Pitagora divise i
pitagorici in due gruppi: - I matematici (mathematikoi),
ovvero la cerchia più stretta dei seguaci, i quali vivevano all'interno
della scuola, si erano spogliati di ogni bene materiale e non
mangiavano carne. Ai
matematici, gli unici ammessi direttamente alle lezioni di Pitagora, era
imposto l'obbligo del silenzio e del segreto, in modo che gli insegnamenti
impartiti all'interno della scuola non diventassero di pubblico dominio;
- Gli acusmatici (akusmatikoi),
ovvero la cerchia più esterna dei seguaci, ai quali non era richiesto di
vivere in comune, o di privarsi delle proprietà e di essere vegetariani.
Donne pitagoriche
Sempre
la tradizione vuole che le donne pitagoriche più famose fossero 17. Fra queste
si ricorda Timica, moglie di Millia di Crotone.
La
comunità pitagorica ha in parte innovato le tradizioni del mondo classico greco, affermando che la donna ha il riconoscimento di un proprio
mondo interiore. Pitagora, infatti, rendeva edotte le sue
allieve sulle questioni filosofiche da lui trattate poiché le riteneva
dotate di ottima intuizione e di spirito contemplativo. Non aderì dunque allo
stereotipo della donna incolta e subalterna, relegata alle occupazioni
domestiche.
Pitagora
stesso, narra Aristosseno, apprese gran parte delle dottrine
morali ed i segreti dell'ascesi e della theurgia da Temistoclea, sacerdotessa di Delfi. Clemente Alessandrino nelle sue Stromata attesta l'eccellenza delle
donne pitagoriche.
Parmenide di Elea
(Elea, 515 a.C. – 450 a.C.)
Parmenide afferma che l’uomo scopre la
Verità (alètheia) attraverso due vie,
quella della Ragione e quella dei Sensi. La prima porta alla Verità tutta
tonda, la seconda all’Illusione perché é solo una opinione (doxa).
Con queste parole Parmenide intende affermare che niente si
crea dal niente, e nulla può essere distrutto nel nulla.
Già i primi filosofi greci avevano cercato l'origine (archè) della mutevolezza dei fenomeni in un principio statico che
potesse renderne ragione, non riuscendo a spiegarsi il divenire. Ma i cambiamenti e le trasformazioni a cui è soggetta la
natura, tali per cui alcune realtà nascono, altre scompaiono, secondo Parmenide
non hanno motivo di esistere, esse sono pura illusione.
La vera natura del mondo, il vero essere della realtà, è
statico e immobile. A tali affermazioni Parmenide giunge promuovendo per la
prima volta un pensiero basato non più su spiegazioni mitologiche del cosmo, ma su un metodo razionale, servendosi in particolare della logica formale di non-contraddizione, da cui si traggono le seguenti conclusioni:
- L'Essere
è immobile perché se si
muovesse sarebbe soggetto al divenire, e quindi ora sarebbe, ora non sarebbe.
Inoltre non può andare dove lui non c’è perché il nulla non esiste.
- L'Essere
è Unico, Finito e Compiuto, cioè privo di imperfezioni e identico in ogni
sua parte come una sfera perfetta sempre uguale a sé stessa nello spazio e
nel tempo, chiusa e finita (per gli antichi greci il finito era sinonimo di perfezione).
- L'Essere
è eterno perché non può esserci
un momento in cui non è più, o non è ancora: se l'essere fosse
solo per un certo periodo di tempo, a un certo momento non sarebbe,
e si avrebbe contraddizione. L’Essere è eterno, cioè senza la dimensione
tempo.
- L'Essere
è dunque ingenerato e imperituro, cioè immortale, poiché in caso
contrario implicherebbe il non essere: la nascita significherebbe essere,
ma anche non essere prima di nascere; e la morte significherebbe non
essere, ovvero essere solo fino a un certo momento.
- L'Essere
è indivisibile, perché
altrimenti richiederebbe la presenza del non-essere come elemento
separatore.
- L'Essere
è immutabile, non può cambiare.
Infatti in cosa si può mutare l’Essere? Se esiste solo lui e il “diverso
da lui” è il “non essere” che non esiste? Fuori dell'Essere non può
esistere nulla, perché il non-essere, secondo logica, non è, per sua stessa definizione.
Il divenire attestato dai sensi, secondo cui gli enti ora sono e ora non sono, è una mera
illusione (che appare ma in realtà non è). La vera conoscenza dunque non deriva
dai sensi, ma nasce dalla ragione. Parmenide si limita ad affermare che gli
uomini si lasciano guidare dall'opinione (doxa), anziché dalla verità, ossia giudicano la
realtà in base all'apparenza, secondo procedimenti illogici. Compito del
filosofo è unicamente quello di rivelare la nuda verità dell'Essere nascosta
sotto la superficie degli inganni.
La fiducia di Parmenide in un sapere completamente dedotto
dalla ragione, e viceversa la sua totale sfiducia nei confronti dei sensi e di una conoscenza empirica, fa di lui un filosofo profondamente razionalista. Esiste una identità fra pensiero ed
essere, il pensiero non può pensare il nulla, Pensare ed Essere, sono la stessa
cosa. Posso pensare solo ciò che è. La molteplicità e il divenire sono pura
illusione e parvenza.
“Saranno tutte e soltanto parole quanto i
mortali hanno stabilito, convinti che fosse vero: nascere e perire, essere e
non essere, cambiare luogo e mutare il luminoso colore”.
Ma come valutare queste caratteristiche
dell’Essere così come sono definite da Parmenide, caratteristiche che privilegiano
il pensiero razionale e lasciano fuori dalla porta i nostri sensi? Allora tutto
è “non vero”. Non esiste la molteplicità dell’essere, non esistono cioè gli
oggetti e le persone che ci stanno attorno perché cambiano comunque nel tempo e
si possono muovere nello spazio, cioè mutano. Chi ha ragione? La Ragione o i
Sensi? Con Parmenide assistiamo alla sfida più radicale che la filosofia ha
rivolto al comune modo di pensare degli uomini.
Zenone di Elea (489 a.C. – 431 a.C.)
È
conosciuto soprattutto per i suoi paradossi
formulati in relazione alla tesi della impossibilità del moto.
Oggi sono conosciuti con il nome di paradossi di Zenone. Tra di essi il più noto
è "Il paradosso di Achille e la
tartaruga".
È il paradosso più noto e afferma che se Achille
(detto "pie' veloce") venisse sfidato da una tartaruga
nella corsa e concedesse alla tartaruga un piede di vantaggio, egli non
riuscirebbe mai a raggiungerla, dato che Achille dovrebbe prima raggiungere la
posizione occupata precedentemente dalla tartaruga che, nel frattempo, sarà
avanzata raggiungendo una nuova posizione che la farà essere ancora in
vantaggio; quando poi Achille raggiungerà quella posizione nuovamente la
tartaruga sarà avanzata precedendolo ancora. Questo stesso discorso si può
ripetere per tutte le posizioni successivamente occupate dalla tartaruga e così
la distanza
tra Achille e la lenta tartaruga pur riducendosi verso l'infinitamente piccolo
non arriverà mai ad essere pari a zero. In questo paradosso, come in tutti gli
altri, il fine è quello di dimostrare che accettare la presenza del movimento
nella realtà implica contraddizioni logiche ed è meglio quindi, da un punto di
vista puramente razionale, rifiutare l'esperienza sensibile ed affermare che la
realtà è immobile. Questi paradossi implicano anche il concetto di infinita
divisibilità dello spazio ed è questa la ragione per cui hanno ricevuto una
notevole attenzione da parte dei matematici.
Antifonte (Atene,
480 a.C.– Atene, 410 a.C.)
Secondo Antifonte le norme dettate dalle leggi sono frutto di un
accordo, tanto è vero che un individuo, se le infrange, ma non è scoperto, non
ne subisce alcun danno.
Le norme dettate dalla natura, se sono infrante, danneggiano colui che
le infrange.
La legge come divisione tra gli
uomini e le città.
La tesi di Antifonte è che molte cose dettate dalla legge contrastano e
pongono limiti e ostacoli a quanto è dettato dalla natura, per esempio
prescrivendo ai vari organi di senso ciò che debbono fare o non fare.
La critica che Antifonte rivolse alla
legge intesa come nomos (legge, norma legale) fu quello del particolarismo. Ogni
città ha la sua legge, e spesso ciò che è giusto e legale qui, è ingiusto ed
illegale là. L'eccesso legislativo è dunque un fattore di divisione, un'esasperazione
delle differenze, un contrasto artificioso tra gli uomini. Nessuna legislazione
particolare, portata all'estremo cavilloso, può considerarsi universale, e
quindi è davvero utile metter fine alle incomprensioni e alle guerre.
L'area del cerchio è
determinata costruendo una successione di poligoni che assomigliano sempre di
più al cerchio. Ad esempio, una successione di poligoni regolari
con numero crescente di lati: in figura, un pentagono, un esagono e
un ottagono.
A seconda che si scelgano poligoni iscritti o circoscritti nella circonferenza,
l'area di questa risulterà essere approssimata inferiormente o superiormente.
Entrambe le scelte portano comunque al limite all'area del cerchio.
Riflessioni (di don Claudio Crescimanno)
Partiamo
dalle considerazioni di Eraclìto a proposito dei dormienti. In effetti anche
noi possiamo considerarci dei dormienti quando prendiamo le cose così come sono
o meglio come ci vengono, senza preoccuparci di nient’altro. È il normale
atteggiamento di maggiore comodità, ovvero di minore resistenza alla “fatica”
di vivere.
Accostarci
alle cose, accostarci alla realtà, vivere la nostra vita di tutti i giorni va
nella direzione del punto di minore resistenza che vuole anche dire una
modalità meno ansiogena o meno difficile.
La
storia della Filosofia invece nasce perché alcune persone si sono fatte delle
domande proprio su problemi nei quali i punti di resistenza sono maggiori.
Hanno cioè scelto la strada più difficile, quella in salita per rispondere al vero,
profondo e radicale interrogativo, quello che secoli dopo verrà formulato
sinteticamente da Leibniz matematico, filosofo, scienziato (1646):
perché esiste qualche cosa?, perché non c’è
il nulla? Perché il Nulla non
possiamo né pensarlo, né tanto meno spiegarlo a parole?
Ci
rendiamo però conto che non può essere così, proprio per la legge dei contrari
che si aiutano a vicenda o che si illuminano a vicenda (di cui ci parlava
Eraclìto).
In
realtà le cose ci sono, esistono, diverse da me, ma esistono. Debbo allora
rendere ragione di questo attraverso un’indagine, intellettualmente rigorosa,
cosa che mi costringe ad abbandonare i Miti, che pure hanno aiutato nella
preistoria del pensiero a darci qualche ragione della vita, ma che ora non
soddisfano più.
È
la scelta di adottare una indagine seria
e intellettualmente rigorosa, cioè razionalmente rigorosa, che oggi ci fa apprezzare
ancora di più il Genio dei Greci.
Le
domande che si pongono sono: perché le
cose ci sono,
perché le cose sono
come sono e non sono in un altro modo.
In
questo “essere come sono e non in un altro modo” si arriva a questo contrasto
apparentemente insanabile fra due posizioni: il Divenire e l’Essere
Per
capire diciamo che sono entrambe vere e al contempo entrambe false. Con buona
pace di Eraclìto, diciamo che il Divenire
non può essere la legge suprema del mondo. Infatti io sono diverso da quando
avevo 10 anni, ma sono contemporaneamente lo stesso di allora.
Quindi
è vero che le cose cambiano in continuazione, ma è anche vero che c’è un
permanere, c’è una stabilità, c’è una solidità che io sperimento anche su me
stesso, ma che constato anche nelle altre persone come negli animali, nei
vegetali, nei minerali, ecc. cioè nella realtà che mi circonda. Io sperimento questo.
D’altra
parte con buona pace di Parmenide, i sensi non ci ingannano, ma ci dicono che
l’acqua è una cosa diversa dal bicchiere che la contiene, che il libro che ho
in mano è diverso dalla matita che ho appoggiato sul tavolo e che questa è
diversa dalla sedia sulla quale sono seduto, come io sono diverso da chi mi sta
di fronte e così via e soprattutto che tutte queste cose non sono io.
Non
è quindi convincente Parmenide quando mi dice che l’Essere è unico, immutabile, indistinto, e che esiste solo lui e non
c’è nient’altro diverso da lui. Così come quando dice che dentro l’essere ci
sono tutte le cose che esistono, come
fosse un sacco al di fuori del quale non esiste nulla, cosa che non riusciamo neanche
ad immaginare.
Per
Parmenide nell’essere sono racchiuse tutte le cose che esistono, ma non posso
accettare di essere un blocco unico con tutte le cose che esistono perché so di
essere io e di non essere tutte le altre cose. Ci deve essere un momento di
distinzione, di separazione, di differenza, di opposizione (nel senso che io
non sono un’altra cosa che di fatto mi si contrappone).
È
a questo punto necessario che qualcuno arrivi a spiegarci in cosa ciascuna
teoria ha ragione e in cosa ciascuna teoria ha torto. In altre parole serve
qualcuno che sappia mettere insieme armonicamente e senza contraddizioni
l’Essere e il Divenire, l’Uno e il Molteplice, l’Immutabilità e il Movimento.
Qualcuno che ci spieghi il fatto che io sono io e non sono un altro e che
comunque, io e questo altro da me, siamo tutti e due parte di qualche cosa e
insieme siamo diversi per qualche cosa. Se questo qualcuno non riesce a
spiegarlo vorrebbe dire che la realtà è incomprensibile.
È
da questa preoccupazione di capire qual è la Verità che nasce il Pensiero
occidentale, nasce la nostra cultura, nasce la nostra civiltà. Questi grandi
temi della nostra civiltà solo noi occidentali li abbiamo affrontati e sono
essi alla base della ricchezza, della grandezza e della perennità del nostro
pensiero e del nostro ragionare.
È
una ricchezza che stiamo sempre più sottovalutando e che invece rappresenta le
grandi linee del nostro pensiero che hanno risolto i grandi temi del senso del mondo, del senso della vita, del senso dell’uomo.
Stiamo
quindi rivivendo insieme questa grande avventura, cioè il ripercorrere nella
storia dei secoli il pensiero che ha formato anche quello che viviamo nella
quotidianità e che ha qui le sue radici. Noi forse non ce ne accorgiamo e non
sappiamo come sono legate quelle cose alle nostre cose, ma lo andremo a
scoprire strada facendo. L’importante è non dimenticare le nostre radici, anzi
approfondirle.
Estratto da “Rheinische Post”,17.03. 1985 – Joseph Ratzinger
Oggi in genere non c’è molto
interesse per la storia. Perché rivolgerci al passato – si dice. Non c’è da
perder tempo a considerare il passato. Il passato è passato, l’oggi è davanti a
noi.
Questo aimè fa perdere la memoria e
ci conduce velocemente alla trascuratezza e alla perdita di consapevolezza.
Questo ci porta ad accreditare al passato una storia di oppressione e di
deviazioni che ci fanno credere che soltanto ribellandoci a tutto ciò che è
stato, e che è stato fatto, sia possibile costruire un mondo migliore. Quando
l’uomo non può amare più nulla, quando l’uomo crede di non poter ricevere più
niente dalla storia che valga la pena di essere trasmesso nel tempo, il mondo
stesso sarà una catena di amare disillusioni e contrapposizioni.
Buttare via il “cattivo del passato” insieme a quanto
di buono invece c’è stato e che è stato spesso costruito con impegno e fatica,
sembra essere una condanna dalla quale facciamo fatica a liberarci. Una
rivoluzione segue all’altra e non ci insegna niente. Il passato è cattivo per
definizione. Buono è solo il nuovo? [Ndr]
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