lunedì 17 aprile 2017

1t - 6 - La nascita della Metafisica

Le Slides e la Dispensa
























PLATONE (Atene, 428 a.C. – 347 a.C.)

Platone nacque ad Atene da famiglia aristocratica nel 428 a.C. A vent'anni cominciò a frequentare Socrate. Avrebbe voluto dedicarsi alla vita politica. La morte di Socrate lo dissuase dal fare politica in patria, ma non per questo rinunciò a perseguire l'ideale di un reggimento filosofico della città. «Io vidi, egli dice, che il genere umano non sarebbe mai stato liberato dal male, se prima non fossero giunti al potere i veri filosofi o se i reggitori di Stato non fossero, per divina sorte, diventati veramente filosofi».
Negli anni seguenti, si recò a Megara presso Euclide, poi in Egitto e a Cirene di cui non ha mai parlato. Parla invece del viaggio che fece nell'Italia meridionale, a Taranto, dove venne a contatto con la comunità pitagorica di Archita, e a Siracusa dove strinse amicizia con Dione, parente e consigliere del tiranno Dionisio il Vecchio. Entrato in conflitto con Dionisio, fu venduto come schiavo sul mercato di Egina. Riscattato da Anniceride di Cirene, ritornò ad Atene, dove fondò nel 387 l'Accademia. La scuola di Platone, che si chiamò così perché fiorita nel ginnasio fondato da Accademo, fu organizzata sul modello delle comunità pitagoriche come un'associazione religiosa.
Alla morte di Dionisio, Platone fu richiamato a Siracusa da Dione alla corte del nuovo tiranno Dionisio il Giovane, per guidarlo nella riforma dello Stato in conformità con il suo ideale politico. Ma l'urto fra Dionisio il giovane e Dione, che fu esiliato, rese sterile ogni tentativo di Platone. Alcuni anni dopo, Dionisio stesso lo chiamò insistentemente alla sua corte e Platone vi si recò nel 361, spinto anche dal desiderio di aiutare Dione, che era rimasto in esilio. Ma nessun accordo fu raggiunto e Platone, dopo essere stato trattenuto per un certo tempo, quasi come prigioniero, grazie all'intervento di Archita, lasciò Siracusa e ritornò ad Atene. Qui egli trascorse il resto della sua vita, dedito solo all'insegnamento.
Morì a 81 anni, nel 347. Il corpus delle opere di Platone è composto dall'Apologia di Socrate, da 34 dialoghi e da 13 lettere, complessivamente 36 titoli ordinati in 9 tetralogie dal grammatico Trasillo (I sec. d. C.).

Platone è:

1.  È considerato il padre della metafisica occidentale;
2.  è il più importante discepolo di Socrate (“Ringrazio Dio di essere nato nel secolo di Socrate”);
3.  entra in contatto in Sicilia con la Scuola Pitagorica dalla quale assorbe diversi contenuti;
4.  supera definitivamente il relativismo dei sofisti;
5.  recupera il Mito utilizzandolo a scopo didattico per far comprendere i passaggi più difficili della sua filosofia (Il Mito aiuta la ragione a penetrare i misteri più alti);
6.  fonda la Scuola filosofica di Atene, l’Accademia, per preparare i futuri governanti.

Il Mito della caverna

Il mito della caverna di Platone è probabilmente il più conosciuto tra le sue allegorie o metafore. Il mito è raccontato all'inizio del libro settimo de La Repubblica (514 b–520 a).
1.   Si immaginino dei prigionieri che siano stati incatenati, fin dall'infanzia, nelle profondità di una caverna. Non solo le membra, ma anche testa e collo sono bloccati, in maniera che gli occhi dei malcapitati possano solo fissare il muro dinanzi a loro.
2.   Si pensi, inoltre, che alle spalle dei prigionieri sia stato acceso un enorme fuoco e che, tra il fuoco ed i prigionieri, corra una strada rialzata. Lungo questa strada sia stato eretto un muricciolo, lungo il quale alcuni uomini portano forme di vari oggetti, animali, piante e persone. Le forme proietterebbero la propria ombra sul muro e questo attrarrebbe l'attenzione dei prigionieri. Se qualcuno degli uomini che trasportano queste forme parlasse, si formerebbe nella caverna un'eco che spingerebbe i prigionieri a pensare che questa voce provenga dalle ombre che vedono passare sul muro.
3.   Mentre un personaggio esterno avrebbe un'idea completa della situazione, i prigionieri, non conoscendo cosa accada realmente alle proprie spalle e non avendo esperienza del mondo esterno (ricordando che sono incatenati fin dall'infanzia), sarebbero portati ad interpretare le ombre "parlanti" come oggetti, animali, piante e persone reali.
4.   Si supponga che un prigioniero venga liberato dalle catene e sia costretto a rimanere in piedi, con la faccia rivolta verso l'uscita della caverna: in primo luogo, i suoi occhi sarebbero abbagliati dalla luce del sole ed egli proverebbe dolore. Inoltre, le forme portate dagli uomini lungo il muretto gli sembrerebbero meno reali delle ombre alle quali è abituato; persino se gli fossero mostrati quegli oggetti e gli fosse indicata la fonte di luce, il prigioniero rimarrebbe comunque dubbioso e, soffrendo nel fissare il fuoco, preferirebbe volgersi verso le ombre.
5.   Allo stesso modo, se il malcapitato fosse costretto ad uscire dalla caverna e venisse esposto alla diretta luce del sole, rimarrebbe accecato e non riuscirebbe a vedere alcunché. Il prigioniero si troverebbe sicuramente a disagio e s'irriterebbe per essere stato trascinato a viva forza in quel luogo.
6.   Volendo abituarsi alla nuova situazione, il prigioniero riuscirebbe inizialmente a distinguere soltanto le ombre delle persone e le loro immagini riflesse nell'acqua; solo con il passare del tempo potrebbe sostenere la luce e guardare gli oggetti stessi.
7.   Successivamente, egli potrebbe, di notte, volgere lo sguardo al cielo, ammirando i corpi celesti con maggior facilità che di giorno.
8.   Infine, il prigioniero liberato sarebbe capace di vedere il sole stesso, invece che il suo riflesso nell'acqua, e capirebbe che: « è esso a produrre le stagioni e gli anni e a governare tutte le cose del mondo visibile e ad essere causa, in certo modo, di tutto quello che egli e suoi compagni vedevano».
9.   Resosi conto della situazione, egli vorrebbe senza dubbio tornare nella caverna e liberare i suoi compagni, essendo felice del cambiamento e provando per loro un senso di pietà: il problema, però, sarebbe proprio quello di convincere gli altri prigionieri ad essere liberati.
10.                Infatti dovendo riabituare gli occhi all'ombra, dovrebbe passare del tempo prima che il prigioniero liberato possa vedere distintamente anche nel fondo della caverna; durante questo periodo, molto probabilmente egli sarebbe oggetto di riso da parte dei prigionieri, in quanto sarebbe tornato dall'ascesa con "gli occhi rovinati".
11.               Questa sua temporanea inabilità influirebbe negativamente sulla sua opera di convincimento e, anzi, potrebbe spingere gli altri prigionieri ad ucciderlo, se tentasse di liberarli e portarli verso la luce, in quanto, a loro dire, non varrebbe la pena di subire il dolore dell'accecamento e la fatica della salita per andare ad ammirare le cose da lui descritte.

Interpretazione del mito della caverna

In particolare, Platone paragona il mondo conoscibile, cioè gli oggetti che osserviamo attorno a noi, «...alla dimora della prigione, e la luce del fuoco che vi è dentro al potere del sole. Se poi tu consideri che l'ascesa e la contemplazione del mondo superiore equivalgono all'elevazione dell'anima al mondo intelligibile, non concluderai molto diversamente da me [...]. Nel mondo conoscibile, punto estremo e difficile a vedere è l'idea del bene; ma quando la si è veduta, la ragione ci porta a ritenerla per chiunque la causa di tutto ciò che è retto e bello, e nel mondo visibile essa genera la luce e il sovrano della luce, nell'intelligibile largisce essa stessa, da sovrana, verità e intelletto».
(Platone, La Repubblica, libro VII, 517 b - c, trad.: Franco Sartori)
Il sole che brilla all'esterno della caverna rappresenta l'idea del bene e questo passaggio darebbe facilmente l'impressione che Platone la concepisse come una divinità creativa ed indipendente. Normalmente gli uomini sono tenuti prigionieri, costretti ad osservare delle semplici ombre di forme che non sono neanche dei veri oggetti; essi possono essere trovati soltanto "fuori della caverna", cioè nel mondo intelligibile delle forme conosciute dalla ragione e non dalla percezione.
Inoltre, dopo aver fatto ritorno dalla contemplazione del divino alle "cose umane", l'uomo-filosofo rischia di fare una "cattiva figura" se, «…prima ancora di avere rifatto l'abitudine a questa tenebra recente, viene costretto a contendere nei tribunali o in qualunque altra sede discutendo sulle ombre della giustizia o sulle copie che danno luogo a queste ombre, e a battersi sulla interpretazione che di questi problemi dà, chi non ha mai veduto la giustizia in sé».
(Platone, La Repubblica, libro VII, 517 d - e, trad.: Franco Sartori)
Chiaramente Platone si riferisce, tra le righe, al processo che Socrate dovette subire: tutto il mito, infatti, diviene una metafora della vita del filosofo ateniese, che riuscì a risalire la strada verso la verità, ma venne ucciso per aver tentato di portarla agli uomini, incatenati al mondo dell'opinione.

Platone e la Metafisica

Il termine metafisica (in greco "metá ta Physiká") deriva dalla catalogazione dei libri di Aristotele, nell'edizione di Andronico da Rodi (I  secolo a.C.), nella quale la trattazione dell'essenza della realtà fu collocata dopo (in greco μετά, "meta") quella della natura, che era la fisica. Il prefisso "meta" assunse poi il significato di "al di là, sopra, oltre" la natura.
Platone è considerato il primo vero metafisico. Socrate non lo era ancora del tutto, perché cercava la definizione di cos’è una cosa, il suo concetto universale, contrapposto al particolare,  ma non giungeva mai ad una conclusione comprensibile, non gli dava un contenuto. C’era sì un’esigenza di verità, ma che però non si concretizzava mai. Il suo “so di non sapere”, intuiva che la verità doveva essere concettuale e universale, ma poi cosa sarebbe dovuta essere davvero non lo sappiamo.
Platone invece ci dice cosa sono questi Concetti e dà loro un contenuto chiamandoli “idee”. Idea (dal greco  vedere) è un termine usato sia nel linguaggio comune che in filosofia, con diversi significati riferibili in genere ad un concetto o una forma o una figura o un "disegno della mente".
L’Idea, è per noi, un contenuto mentale, un qualcosa che sta nella nostra testa. Non è questa l’Idea di Platone, per lui è una realtà, una cosa (non fisica – metafisica) e che non è vista con gli occhi della carne, ma con quelli della mente. Le idee platoniche esistono indipendentemente dal soggetto che le pensa. Per esempio: questo bicchiere esisterebbe anche nel caso in cui tutti gli uomini scomparissero dalla terra? Per Platone sì, perché anche se l’immagine del bicchiere è riflessa nella mente (di chi non c’è più), esiste indipendente-mente dalla mente degli uomini.
L’Idea è quindi qualcosa che esiste davvero, ma in un’altra sfera di realtà, come se esistesse un altro mondo che va oltre la nostra realtà fisica, cioè “metafisica” come sarà poi classificata. La dottrina delle idee è il cuore di Platone.

L’Idea

Le Idee sono quindi una realtà ontologica, cioè davvero esistente e a se stante, ovvero che sta in un’altra sfera di realtà, che Platone chiamerà Iperuranio, un mondo ideale. Ogni idea è immutabile ed eterna, come l’Essere di Parmenide, le cose sensibili cambiano, le cose sensibili mutano, le cose sensibili nascono e muoiono, ma non l’Idea.
Pensiamo per esempio all’idea della Grandezza. Una casa grande, porta con sé l’idea di grandezza anche quando viene rifatta o distrutta. Altro esempio, l’Idea della Bellezza di un fiore, rimane anche dopo che il fiore è appassito e non più bello o addirittura brutto perché appassito. Una cosa grande è grande perché partecipa all’idea di grandezza, Una cosa bella è bella perché partecipa all’idea di bellezza. Quindi:
1.   Ogni idea è una cosa immateriale
2.   Ogni idea è vista con gli occhi della mente
3.   Ogni idea è immutabile ed eterna
4.   Ogni idea è una realtà ontologica a sé stante
5.   Ogni idea è una sostanza autonoma, un modello unico e perfetto delle cose sensibili



Esistono dunque due piani di realtà, due sfere d’essere.
·         Un mondo soprasensibile, metafisico, intellegibile, ultramondano, immutabile ed eterno (Parmenide?), e che Platone chiama Iperuranio
·         Un mondo sensibile, fisico, colto dai sensi, mutevole e imperfetto (Eraclìto?)
Iperuranio (dal greco Hypèr <oltre> e Ouranòs <Cielo>) indica la regione sovraceleste nella quale risiedono le sostanze immutabili e che ovviamente è immateriale e a-spaziale.
Le idee sono quindi delle realtà che esistono anche quando non sono pensate (con gli occhi della mente), come le cose che esistono anche quando non son viste con gli occhi della carne. Se anche non ci fosse più nessuna mente umana che pensa il bello, il bello continuerebbe ad esistere, perché sta in un altro mondo, in un’altra sfera di realtà quella metafisica.
Come esistono due piani di realtà esistono anche due piani di modalità del conoscere. Quando i greci parlano di conoscenza intendono sempre conoscenza dell’essere. Esisterà quindi:

·         il piano dell’Opinione, mutevole e imperfetta che rispecchia le cose del mondo e
·         il piano della Scienza (epistème: che si tiene su da sé”, “che si stabilisce su fondamenta certe), immutabile e perfetta che rispecchia le idee.
le idee sono tantissime, esistono tante idee quante sono le realtà che conosciamo. Queste idee sono ordinate gerarchicamente e ce n’è una che le sovrasta tutte come il sole nel nostro sistema solare e che vedremo essere l’idea del Bene.
Ci sono poi le idee dei Valori morali (la Giustizia, la Meritocrazia, la Solidarietà, ecc. per cui diciamo giusta un’azione, meritoria un’altra e Solidale un altro comportamento, ecc.).

·         Ci sono in fine le idee delle cose naturali, delle cose inanimate, degli animali, ecc. (distinguo infatti un gatto da un cane, da un albero, da un vulcano, da un uomo, ecc. perché rapporto ognuno di essi all’idea che lo rappresenta e non mi lascio confondere dai suoi attributi, alto, basso, peloso o no, dal colore, dalla razza, ecc.),
Avviene come in matematica all’idea di cerchio, di triangolo o di poligono o a quella di eguale o diverso.

L’idea del bene

1.   Al vertice di tutto questo c’è l’idea del Bene.
2.   Sotto l’idea dei Valori e degli enti matematici,
3.   più sotto ancora le Cose naturali e artificiali.
Il Bene è ciò che dà luce e splendore a tutto il mondo ideale. Siamo ben oltre il relativismo dei sofisti. Ricordiamo Protagora: “l’uomo è misura di tutte le cose”. Una cosa è bella se mi piace, è calda se la sento calda è vera se la sento vera. Per un altro sarà come la sente lui. L’Uomo è il criterio di giudizio.
Per Platone invece il criterio di giudizio è dato dalle idee, che sono immutabili ed eterne. Una cosa è bella se partecipa all’idea di Bello, è buona se partecipa all’idea di Buono, indipendentemente dalla mente che la pensa. Le cose e le idee esistono di per sé e non sono alla mercé del pensiero umano, mutabile e capriccioso. Se un essere è un Uomo, lo è in qualunque condizione e situazione: schiavo o padrone, bambino o vecchio, malato o medico, embrione o moribondo.
Platone introduce quindi una serie di rimandi morali che caratterizzeranno il pensiero occidentale anche quando l’uomo occidentale non vorrà riconoscerli e preferirà, per sostenere la sua posizione politica o il suo comodo, appoggiarsi al relativismo dei sofisti prima e degli illuministi dopo.


Il criterio di giudizio

Il criterio di giudizio non è quindi dato dall’uomo e dalla sua testa, ma dalle Idee. Quindi solo chi “vede” il mondo ideale è capace di discernere le cose. Gli ateniesi hanno ucciso Socrate perché non vedevano l’idea del bene e perché non governavano i filosofi come osservava Platone.
Se c’è l’idea di Uomo, allora tutte le fattispecie concrete di Uomo io le devo riconoscere in quanto partecipano all’idea di Uomo, sia il massimamente piccolo che il massimamente grande, sia il neonato che l’anziano, sia l’embrione che il paralitico.  Non possiamo decidere noi se uno, in un certo momento della sua vita è da considerarsi Uomo o no, quindi usarlo come una cosa (per es. un ammasso di cellule informi) o decidere di eliminarlo. Uomo uno lo è sempre dal concepimento alla morte. Le cose sono quel che sono, non a seconda del nostro criterio di giudizio, del nostro modo di pensare mutevole di tempo in tempo. Le cose sono quel che sono perché partecipano di una realtà oggettiva, che esiste in sé ed è eterna.

È di enorme importanza questa dottrina delle idee di Platone anche per i suoi inequivocabili rimandi morali. Questa dottrina avrebbe potuto evitare l’eliminazione di esseri umani a seguito di leggi umane che hanno deciso che non sono uomini i selvaggi, gli zingari, le razze imperfette, i malati incurabili o terminali, gli esseri umani considerati inutili o problematici o indesiderati o nocivi alla società o semplicemente “sovrabbondanti” le possibilità gestionali dello Stato (Hitler, Stalin, Mao, solo pochi anni fa, ma anche ora in alcuni paesi occidentali che si ritengono più  “civili” di altri).
Platone quindi ci dimostra che solo chi è in grado di riferirsi al mondo delle idee è in grado di vedere davvero come stanno le cose, cioè la Verità, e quindi è in grado di guidare i popoli verso il vero Bene comune, auspicando l’avvento del governo dei filosofi o di Re che diventino filosofi.

Le idee sono la condizione di pensabilità degli oggetti. Io posso pensare al libro perché questi partecipa all’idea di libro. Lo riconosco come libro perché lo rapporto all’idea di libro, così come riconosco un cane, anche di una razza strana e mai vista, perché lo rapporto all’idea di cane. Il mondo ideale (l’Iperuranio) è il cuore del Platonismo.


Il Mito del Demiurgo

Platone sente l’esigenza di capire come si passa dal mondo ideale al mondo reale. Per fare questo introduce il Mito del Demiurgo (di un Artefice massimo). Cioè di un dio Buono che, bontà sua, ha la capacità di plasmare (fabbricare) con arte (artificio) una materia informe in uno spazio (Chòra) mentre guarda le idee. 
In particolare, c’è il mondo delle Idee, rappresentato dalla luce, c’è la mano del Demiurgo che manda questa luce sulla materia che viene da lui plasmata e prende forma di albero, di montagna, di animale, di uomo, ecc. che confluiscono nella Chòra  (dapprima informe ed ora formata).

Mondo fisico e Mondo metafisico

Qual è il rapporto tra il mondo fisico e quello metafisico? Platone oscilla tra tre idee filosofiche: Mimesi, Metessi e Parusia.

Mimesi (imitazione)

Mimesi viene dalla parola greca mimesis, mimo che significa imitazione. In particolar modo ci si riferisce all'imitazione della realtà e della natura che è il fondamento, secondo l'estetica classica, della creazione artistica. Ogni forma d'arte sarebbe così un'attività di mimesi. Le cose che vediamo sono di fatto una imitazione delle idee. Sia Platone che Aristotele vedevano nella mimesi la rappresentazione della natura.
Platone pensava che anche la creazione ad opera di un Demiurgo (un Artefice) fosse essa stessa una forma di imitazione e che quindi la riproposizione artistica di questa realtà creata fosse in effetti l'imitazione di un'imitazione. Il concetto di mimesi si applica principalmente alle arti visive, ma investe anche la poesia, la letteratura e la musica. Dato che le cose già di per sé sono simulacri imperfetti della realtà delle idee, le immagini artistiche risultano "copia di una copia".
L'arte per Platone è quindi diseducativa e distruttrice. Essa sollecita la sfera dei sensi, la parte meno nobile dell'uomo e nel contempo ne offusca le capacità razionali facendo appello alla fantasia e all'emozione. Ne risulta che l'arte non può essere una forma di conoscenza ma di confusione, il cui effetto è quello di nascondere la distinzione tra vero e falso. Le conseguenze politiche di un tale pensiero sarebbero per Platone di una violenza senza precedenti: l'espulsione di tutti gli artisti quale primo provvedimento dell'insediamento di uno stato di filosofi.

Metessi (partecipazione)

La parola metessi, dal greco mètexis, significa genericamente partecipazione, comunicazione. Quando l’oggetto o il valore partecipa all’idea che si ha dell’oggetto o del Valore. Quando cioè la cosa o il valore sono in comunione con la loro rispettiva idea. Un Uomo giovane e bello partecipa all’idea di Bellezza, all’dea di Giovinezza e all’idea di Uomo.

Parusia (manifestazione)

Parusia è una parola che deriva dal termine greco parousía, che significa "presenza manifesta" e indica in generale la presenza del divino, o dell'essenza ideale, nel mondo materiale. Significa idea che si manifesta. Le idee si manifestano, si rendono visibili nelle cose. Il termine sarà poi usato dalla teologia cristiana per indicare il ritorno sulla terra di Gesù alla fine dei tempi.

La dottrina della conoscenza

Noi diciamo che conosciamo le cose quando le rapportiamo alle idee delle cose stesse, cioè all’Imitazione (mimesi), alla Comunicazione (metessi), alla Presenza (parusia) dell’idea nella cosa. Platone però osserva che se l’idea è una cosa perfetta, come faccio a dire che essa è presente in una cosa imperfetta, come sono tutte le cose che esistono? Un cerchio, per esempio, anche se disegnato da Giotto, non sarà mai perfetto come l’idea di cerchio, che la geometria definisce come senza spessore e circoscritto da una linea senza dimensioni fisiche e indipendente dalla lunghezza del suo raggio. Un cerchio disegnato, basta osservarlo con un  microscopio lo troveremo decisamente distorto, ovalizzato, con spessore variabile, ecc. Come faccio poi per esempio ad avere l’idea di una cosa che non ho mai visto? Anche un cerchio perfetto io non l’ho mai visto, ma so distinguere e classificare come cerchio anche uno sgangherato cerchio disegnato da mio figlio all’Asilo.

Innatismo gnoseologico

Platone si risponde dicendo che noi possiamo sapere delle realtà ideali, pur non avendole mai viste perché la nostra Anima le ha già viste, perché la nostra anima le aveva viste prima ancora di entrare nel nostro corpo, perché la nostra anima esisteva già prima di entrare nel nostro corpo. È l’innatismo gnoseologico, cioè è una conoscenza innata. Quando la nostra Anima, che è spirito immateriale e che sta nell’Iperuranio, sua sede naturale, precipita nel corpo (metempsicosi), si dimentica tutto.

Dottrina dell’Anamnesi

Ne consegue che le cose sensibili diventano occasioni per recuperare la memoria delle idee che già conosceva. Conoscere è ricordare.
1.   Le idee non possono derivare dai sensi
2.   Le idee sono uno sguardo della mente
3.   La conoscenza è possibile perché la nostra anima, che pre-esiste al corpo, ha già visto le idee nell’Iperuranio di cui è parte
4.   La conoscenza derivata dai sensi è occasione per “ricordare” le “idee” già viste (Anamnesi).
La teoria dell'anamnesi (o reminiscenza) di Platone può essere considerata tra i primi e più noti esempi di innatismo della filosofia occidentale. L'esistenza dell'innatismo, secondo Platone, era testimoniata dal fatto che le nostre conoscenze del mondo sensibile si basano su forme e modelli matematici che non trovano riscontro in esso, ma sembrano provenire da un luogo, l’Iperuranio, dove il nostro intelletto doveva averli contemplati prima di nascere.

L’Anima (psyché)

Il concetto di anima compare la prima volta con Socrate, il quale ne fece il centro degli interessi della filosofia. Prima di lui, i filosofi erano soliti occuparsi di questioni attinenti al mondo o la natura, e la nozione di anima possedeva connotati esclusivamente mitologici, ad esempio negli autori epici come Omero e Virgilio, dove era assimilata ad un "soffio" che abbandona il corpo nel momento della morte; allora si riteneva che essa avesse soltanto la consistenza di un'ombra, capace di sopravvivere nell'Ade ma senza più poter esplicare la sua energia vivificatrice.
È solo con Socrate, e col suo discepolo Platone, che sarà utilizzato il termine psyché (anima) per designare il mondo interiore dell'uomo, a cui viene ora assegnata piena dignità.
« Il concetto di psiche inventato da Socrate e codificato da Platone è centrale a questo proposito: Socrate diceva che il compito dell'uomo è la cura dell'anima. Che poi oggi l'anima venga interpretata in un altro senso, questo è relativamente importante. Socrate per esempio non si pronunciava sull'immortalità dell'anima, perché non aveva ancora gli elementi per farlo, elementi che solo con Platone emergeranno. Ma, nonostante siano passati più di duemila anni, ancora oggi si pensa che l'essenza dell'uomo sia la psyché. […]. Il concetto di psyché è una grandiosa creazione dei greci. L’Occidente viene da qui». (Giovanni Reale, Storia della filosofia antica, Vita e pensiero, Milano 1975)
Secondo Platone, l’anima è per sua natura simbolo di purezza e spiritualità. Ha la sua origine nel soffio divino (da cui il significato stesso della parola, ossia: vento, soffio). Essa non ha un inizio, in quanto è ingenerata; ed è immortale e incorporea. L’anima presente in ogni uomo sarebbe inoltre un frammento dell’anima del mondo. Secondo la contrapposizione gnostica tra Dio (pura perfezione, bene) e materia (imperfezione, male), ripresa dallo stesso Platone, l’anima sarebbe stata calata da Dio in un corpo materiale e perciò contaminata dall’intrinseca malvagità della materia stessa.

Il mito del carro e dell’auriga


Il mito del carro e dell'auriga (o della biga alata) tratta dal Fedro di Platone, serve a spiegare la teoria platonica della reminiscenza dell'anima, un fenomeno che durante la reincarnazione produce ricordi legati alla vita precedente. Racconta di un'ipotetica biga su cui si trova un auriga, personificazione della parte razionale o intellettiva dell'anima (logistikòn). La biga è trainata da una coppia di cavalli, uno bianco e uno nero: quello bianco raffigura la parte dell'anima dotata di sentimenti di carattere spirituale (thymeidès) capace di affetti superiori, e si dirige verso l'Iperuranio; quello nero raffigura la parte dell'anima concupiscibile (epithymetikòn) e si dirige verso il mondo sensibile e gli istinti più bassi. I due cavalli sono tenuti per le briglie dall'auriga che rappresenta l’anima razionale: questa ha il compito di guidare la biga verso l'Iperuranio dove risiedono le "Idee".
Lo scopo dell'anima, infatti, è contemplare il più possibile l'Iperuranio e assorbirne la sapienza delle idee. L'auriga quindi deve riuscire a guidare i cavalli nella stessa direzione, verso l'alto, tenendo a bada quello nero e spronando quello bianco, in modo da evitare o ritardare il più possibile il "precipitare" nella reincarnazione. Chi è precipitato subito rinascerà come una persona ignorante o comunque lontana dalla saggezza filosofica, mentre coloro che sono riusciti a contemplare l'Iperuranio per un tempo più lungo rinasceranno come saggi e come filosofi. Questo mito spiega la reminiscenza ed è riconducibile all'immortalità dell'anima.
La conoscenza dunque consiste propriamente nel ridestarsi di un sapere già presente in forma latente nella nostra anima, ma che era stato dimenticato al momento della nascita ed era perciò inconscio: conoscere significa pertanto ricordare.
 Secondo Platone, il ricordo avviene in forma immediata e intuitiva, per lampi improvvisi, ma deve essere stimolato dalla percezione sensibile, la quale dunque svolge un ruolo importante, poiché offre all'intelletto lo spunto per avviare la reminiscenza.
Egli descrive il concetto di innatismo soprattutto nel Menone, dove riferisce come Socrate riesca ad aiutare uno schiavo privo di cultura a comprendere il teorema di Pitagora. Platone vede in questo episodio la conferma della teoria dell'innatismo: nonostante l'ignoranza in cui si trovava, lo schiavo può ritrovare da sé i passaggi logici di quel teorema perché evidentemente erano già presenti in forma latente nella sua mente, avendoli visti nel mondo Iperuranio delle idee prima di incarnarsi. È stato sufficiente quindi attivare il processo del ricordo tramite la maieutica socratica.

La dialettica

Platone ha sempre considerata la dialettica come la tecnica propria della filosofia. Ma la dialettica non è un metodo deduttivo o induttivo nel senso che Aristotele darà a questi termini e non si modella sul procedimento delle altre scienze, neppure su quello della matematica. Queste scienze infatti si fondano su ipotesi che esse non osano toccare e di cui perciò non sono in grado di saggiare la validità: compito della filosofia è quello di mettere in discussione queste stesse ipotesi, attraverso le conseguenze alle quali esse portano e così determinare i limiti e le condizioni della loro validità (Rep., VII, 533 b-c). La filosofia può quindi mantenere un'ipotesi solo finché non ne trova una migliore (Fed., 101 d-e); perciò è dialettica.  La Dialettica di Platone è un dialogo, ma non fine a se stesso o per il gusto di contestare il proprio interlocutore, ma per ascendere alla verità e alla conoscenza. È quindi un’ascesa conoscitiva. Dialogo per capire e per conoscere.

I gradi di conoscenza


C’è la Dòxa (le Opinioni) che rispecchia il mondo sensibile e l’Epistéme (La Scienza) che rispecchia il mondo metafisico, che a loro volta hanno due livelli:

Mondo sensibile
1. L’immaginazione è il primo livello di conoscenza costruita sulla nostra immaginazione fallace. Per esempio la stessa arte è improponibile perché è la copia di una realtà a sua volta copiata dalle idee originali. (le ombre nella caverna)
2. La credenza. Credere che quanto vedo o tocco sia davvero una cosa vera (e quindi non indago e non vado oltre quello che vedo e tocco per appurare che sia davvero vera). (i personaggi rappresentati dalle statuette trasportate)
Mondo metafisico
3. La Ragione discorsiva, cioè le idee geometriche e matematiche che essenzializzano le cose (influenza pitagorica dell’essenza dei numeri e dell’essenza della geometria). Platone vedeva basilare per un filosofo essere prima di tutto un matematico per poter staccarsi dalla materia con rappresentazioni essenziali numeriche e geometriche che prescindono dalle determinazioni sensibili. (la realtà rispecchiata dall’acqua appena fuori dalla caverna)
4. Intelligenza filosofica. È il gradino più alto della conoscenza, perché ragiona sopra i livelli precedenti per addivenire alla verità. Cioè il Filosofo che contempla le idee e mira alla verità con la dialettica o dialogo costruttivo. (la realtà, una volta abituati gli occhi allo splendore del sole).
Solo chi ha fatto tutto questo percorso dei quattro livelli (quello dello schiavo dall’incatenamento nella caverna fino all’uscita al chiarore del sole) può conoscere la verità. Ne consegue che solo il Filosofo è il più indicato per governare la Città, perché vede la verità, cioè il Bene. Come lo schiavo che torna nella caverna ad avvisare i suoi compagni di cosa c’è veramente fuori.
Se ad Atene avesse governato un filosofo Socrate non sarebbe stato ucciso. Ma purtroppo è avvenuto proprio quello che è capitato allo schiavo rientrato nella caverna per portare la verità. Non è stato creduto e addirittura ucciso per non turbare gli equilibri di quella comunità. Non è stato visto il Bene del quale avrebbero beneficiato tutti.        

La gestione della Società

Nell’opera “la Repubblica” Platone indica come dovrebbe essere gestita una società e i ruoli necessari per un buon governo. Nello Stato ideale ogni individuo riveste un ruolo a seconda della sua natura.

Frasi celebri di Platone

“Chissà se ciò che è chiamato morire è invece vivere oppure se vivere è invece morire”
“La democrazia è una forma piacevolissima di governo, piena di varietà e di disordine, e dispensa una sorta d’eguaglianza agli eguali come agli ineguali”
“Ci sarà un buon governo solo quando i filosofi diventeranno re o i re diventeranno filosofi”
“Gli uomini condannano l’ingiustizia perché temono di esserne vittime, non perché aborrano di commetterla.
“l’Anima di un uomo è immortale e incorruttibile”

  

Riflessioni di don Claudio Crescimanno


Il bisogno di qualificare la parola “Verità” sembra emergere come pensiero principale di Socrate, come esigenza profonda di tutto il processo di conoscenza e quindi della relazione dell’uomo con il mondo. Socrate mette la Verità al vertice del suo pensiero, ma non dà ancora una risposta definitiva alla domanda per eccellenza: “Che cos’è la Verità” (“quid es veritas” come Pilato domanderà a Gesù e alla quale non risponderà, perché è Gesù stesso la Verità).
È questa una proposta che fa a noi che lo ascoltiamo e che ha fatto ai suoi allievi e successori. Platone, suo allievo e seguace per eccellenza, stimolato da questo interrogativo, ci da la sua risposta. Ci dice qual è la relazione fra l’Uomo e il Mondo. La Verità è il rapporto fra il mio pensiero, la mia intelligenza, la mia conoscenza e le Cose. Le Cose che raggiungo in modo diretto attraverso i sensi (che sono le cose materiali) e a mezzo di questi più ancora le cose vere, quelle che non raggiungo attraverso i sensi, ma quelle che raggiungo attraverso il pensiero, cioè le Idee. Le Idee sono come gli stampini dentro i quali il Demiurgo mette della sabbia umida che prende la forma derivata dallo stampo, ma che poi tolto quello, la cosa di sabbia prende una sua strada e una sua storia derivata si dall’idea, ma con sue proprie caratteristiche. Con questo concetto di Verità, noi recuperiamo le cose materiali e ne dichiariamo l’esistenza e le prendiamo per come sono.
Scetticismo e Relativismo sono sconfitti e recuperiamo il rapporto con le cose reali. Quindi la Verità è il rapporto realistico con le cose e la loro conoscenza, in quanto sono il frutto di un’idea (matrice delle cose). Ma, cosa ancora più importante, la mia intelligenza è in grado di conoscere le cose principalmente per il fatto che io posseggo nella mia mente l’immagine della matrice che ha generato le cose, la sua idea. Platone quindi ci fa sapere che la vera vita dell’uomo è quella “contemplativa”, contemplativa in senso culturale, cioè come espressione più nobile dell’Uomo che realizza completamente la sua Spiritualità. Per Platone l’Uomo è la sua Anima, cioè la sua dimensione spirituale, che lui vede come imprigionata nel corpo come in un involucro che provvisoriamente la contiene  per permetterle di vivere (ma che gli è quasi estraneo) e che di fatto le pone dei limiti. La vocazione dell’Uomo in quanto Uomo, indipendentemente dal fatto che è quasi incarcerato nella materialità del suo corpo, non è nelle cose sensibili (che si individuano attraverso i sensi, cioè attraverso il corpo), è quello di dare sviluppo e piena dignità alla sua costituzione spirituale, cioè di conoscere in modo contemplativo (prescindendo dai sensi).

La vita dell’Uomo è una vita contemplativa. Questo vuol dire che io mi posso servire delle cose materiali, ma da queste poi risalire attraverso i vari gradini della conoscenza, alla contemplazione delle cose in quanto sono nella loro dimensione universale e ideale.
Ma, quali cose, quali idee, quali forme preferire  e “contemplare”? Quelle cose, quelle idee, quelle forme, che sono le più “nobili”, che già in se stesse sono astratte come abbiamo visto le forme della Matematica e della Geometria, ma al di sopra di queste le forme Etiche: l’idea del Bene (la Verità, la Bontà, la Grandezza, la Generosità, il Coraggio, la Bellezza, ecc.). L’Uomo che si eleva contemplativamente  al Bene, cioè l’insieme di tutte le idee e le forme più nobili (Etiche = che mi migliorano, che mi fanno più grande, mi fanno più vero, mi arricchiscono interiormente) mostra tutta la sua grandezza e la sua unicità.
Platone capisce che però sono pochi quelli che ci arrivano. Questi pochi sono i filosofi che hanno una consapevolezza infinitamente maggiore degli altri di cosa è bene e di cosa è male e che quindi dovrebbero essere loro ad avere le qualità adatte per il governo della città. Il filosofo è l’unico in grado di tradurre la contemplazione in azione, la verità del Bene nel Governo del Bene. Questo il meraviglioso sogno di Platone, utopistico quanto si vuole, ma davvero affascinante.

L’uomo “Giusto” per Platone – Joseph Ratzinger


Nella filosofia greca è presente una singolare anticipazione di chi è Dio e di come è fatto l’uomo e cioè l’immagine del “giusto crocifisso” tracciata da Platone.
Il grande filosofo, infatti, nella sua opera dedicata allo Stato ideale, si domanda come dovrebbe svolgersi la vicenda di un uomo giusto e incorrotto in questo  nostro mondo; e giunge alla conclusione che la rettitudine di un uomo risulterebbe davvero perfetta e collaudata solo allorché egli accettasse su di sé ogni possibile imputazione d’ingiustizia (e, così, accettasse di passare agli occhi di tutti come il “reo” per eccellenza), poiché solamente allora sarebbe davvero evidente che egli non segue l’opinione degli uomini, ma si allinea invece alla giustizia unicamente per amor di quest’ultima.
Sicché, secondo Platone, il vero giusto deve necessariamente essere un misconosciuto e un perseguitato in questo mondo. Anzi, Platone ha l’ardire di scrivere: Stando così le cose, dovremo dire che il giusto verrà flagellato, torturato, gettato in catene, accecato col ferro rovente, e infine dopo tutto questo scempio, finirà per essere crocifisso…”.
Questo passo, scritto ben quattrocento anni prima di Cristo, continuerà sempre a commuovere un cristiano. Sulla base della serietà e dell’acume intuitivo del pensiero filosofico, qui si presagisce che il perfetto “giusto”, nel mondo, non potrà essere che il giusto crocifisso. Si ha il presentimento di quella rivelazione dell’uomo che si è attuata sulla croce.
Il fatto che il perfetto Giusto, allorché è apparso nel mondo, abbia finito per salire la croce, per diventare colui che la giustizia umana ha condannato a morte, ci dice inesorabilmente chi sia, e di cosa è capace l’uomo. Guardati come sei, o uomo, incapace di tollerare il Giusto, al punto che, colui che è semplicemente l’Amore, viene trattato come fosse un pazzo, un fallito e un reietto! Guardati come sei, uomo: ingiusto fino al punto da aver continuamente bisogno dell’ingiustizia altrui per sentirti scusato, al punto di non poter sopportare il Giusto che sembra strapparti di mano questa giustificazione!
Ecco come siamo noi uomini. L’evangelista Giovanni ha compendiato tutto ciò nell’espressione “Ecce homo” sulla bocca di Pilato. Essa vuole appunto dire, e proprio in linea di principio: “ecco come stanno le cose: questa è la vera fisionomia dell’uomo”. (tratto da: J. Ratzinger “Introduzione al cristianesimo” ed. Queriniana, 1990)

L’elogio di Ratzinger alla «coscienza dell’uomo»

(Articolo di  MARIA ANTONIETTA CALABRÒ inviata del Corriere della Sera)
Etica, difesa della vita, libertà: una raccolta di saggi
(Joseph Ratzinger – Elogio della coscienza
 ed. Cantagalli 2009)

Sorprendente Ratzinger. Dignità della persona umana, aborto, eutanasia, leg­gi dello Stato, interventi del magistero della Chiesa: Benedetto XVI spariglia giochi e luoghi comuni. E scrive L’Elogio della coscienza perché «la Verità interroga il cuore ». Il teologo, il cardinale, il Guardiano della Fede, il Papa che più di ogni altro combatte— da oltre mezzo secolo — quella che lui stesso definisce «la dittatura del relativismo» come vera malattia mortale del mondo contemporaneo, nel suo ultimo libro indica un nuovo punto di prospettiva. Andando dritto verso la trincea estrema, quella più fortificata e che sulla carta appare addirittura inespugnabile, di tutti i relativisti. E cioè la coscienza di ciascuno e la sua libertà.
Sul tappeto i temi della vita e della morte, della procreazio­ne, della pietà verso i piccoli bambini non nati e verso i malati terminali. Testi preparati in dieci anni da Ratzinger, tra il 1991 e il 2000, per lezioni universitarie, conferenze, incontri in Italia e all’estero. Ma che, pubblicati oggi, a quattro anni dall’elezione al pontificato, con un lavoro di revisione e collazione tra le varie parti che ha comportato un impegno di due anni ed è continuato fino a un mese fa, costitu­iscono un discorso organico e un compiuto progetto tematico. E assumono il grande valo­re di spiegare cosa sia per lui fare il Papa quan­do parla dei temi eticamente sensibili o quan­do interviene su materie che magari si stanno dibattendo nelle aule parlamentari. Benedetto XVI parla della coscienza di cia­scuno e parla insieme del ministero del suc­cessore di Pietro. E sulla scia dell’insegnamen­to del grande convertito inglese dell’Ottocen­to, il cardinale John Henry Newman, «brinda prima alla coscienza che al Papa».
Un paradosso, se si vuole, per un Pontefice. Ma solo a un’analisi superficiale. Perché è lì, nel cuore di ciascun uomo — che secondo la definizione di Sant’Agostino è «capax Dei», ca­pace di Dio, e quindi strutturalmente in grado di conoscere e aderire alla Verità — che si fon­da la stessa missione del Papa, tanto più «nel­l’attuale crisi della Chiesa». Ratzinger si affida al concetto di anàmnesis elaborato da Platone: la coscienza come ricor­do o meglio come il riemergere di ciò che già esiste da sempre nella nostra interiorità, cioè quelle verità assolute, prime, il cui affermarsi ci permetterà di essere integralmente uomini. Scrive Benedetto XVI: «Il significato autentico dell’autorità dottrinale del Papa consiste nel fatto che egli è il garante della memoria cristia­na. Il Papa non impone dall’esterno, ma svilup­pa la memoria cristiana e la difende. Per que­sto il brindisi per la coscienza deve precedere quello per il Papa, perché senza coscienza non ci sarebbe nessun papato. Tutto il potere che egli ha è potere della coscienza: servizio al du­plice ricordo, su cui si basa la fede e che dev’es­sere continuamente purificata, ampliata e dife­sa contro le forme di distruzione della memo­ria, la quale è minacciata tanto da una soggetti­vità dimentica del proprio fondamento, quan­to dalle pressioni di un conformismo sociale e culturale».

Questo servizio alla coscienza è propriamen­te maieutico (usa questo termine). Si fa carico del nostro ricordo, affinché non siamo dimen­tichi di noi stessi, della nostra origine e del no­stro destino. Tanto che la coscienza viene para­gonata a «un organo». Come la capacità di par­lare che è innata, ma cresce e si sviluppa sol­tanto se qualcun altro parla al bambino, così la coscienza ha bisogno di qualcuno esterno a sé che la susciti e la renda forte e salda. Allo stesso tempo — spiega Ratzinger — «capax Dei» vuol dire anche che l’uomo è «sa­cro » e «sotto la protezione personale di Dio», per questo intangibile. È questo il nesso stret­to che esiste tra verità, coscienza e dignità umana, un nesso senza il quale l’uomo e la stessa convivenza civile, secondo Ratzinger, si autodistruggono grazie al prevalere della «grande deriva attuale in materia di diritto al­la vita» che attacca proprio quei diritti umani che pure ormai sono universalmente ricono­sciuti. «Così per una dialettica intrinseca alla modernità, dall’affermazione dei diritti della libertà, sganciati però da ogni riferimento og­gettivo in una verità comune, si passa alla distruzione dei fondamenti stessi di tale libertà. Il 'despota illuminato' dei teorici del contrat­to sociale è divenuto lo Stato tiranno, di fatto totalitario, che dispone della vita dei più debo­li, dal bambino non ancora nato al vecchio, in nome di una utilità pubblica che non è più in realtà che l’interesse di alcuni».

Conseguenze. Affermazioni che non hanno solo conse­guenze nella sfera morale del singolo indivi­duo, ma anche in quella sociale e politica «dal momento in cui Stati e perfino organizzazioni internazionali si fanno garanti dell’aborto o dell’eutanasia, votano leggi che le autorizzano e pongono i mezzi a loro disposizione al servi­zio di coloro che li eseguono».

Pote­re e Verità. A proposito della contrapposizione tra pote­re e verità, e del reciproco ruolo della Chiesa e dello Stato, Ratzinger esamina l’analisi elabo­rata da Kelsen in relazione alla domanda — Che cos’è la verità? — che Ponzio Pilato pose a Gesù Cristo al momento della condanna. Era stato il popolo a scegliere Barabba e secondo Kelsen Pilato aveva agito da perfetto democra­tico, poiché il rappresentante del potere non sa che cosa è giusto e lascia quindi che sia la maggioranza a decidere. Ratzinger invece sot­tolinea il rischio totalitario di una simile impo­stazione e la necessità di salvaguardare quello che definisce il nucleo della democrazia. A ri­prova, cita quanto Heinrich Schielier ha scrit­to proprio negli anni dell’ascesa al potere del nazismo in Germania. Insomma, Ratzinger in­vita a non lasciare «il cielo ai passerotti», se­condo la parafrasi del motto brechtiano. «La speranza nei cieli non è nemica della fedeltà alla terra», reclamata da Nietzsche, ma «è spe­ranza anche per la terra». Anche se la Chiesa «sa che essa sulla terra non può di per sé dive­nire 'Stato'... e che non le è dato di istituire sulla terra lo 'Stato di Dio'». Ma proprio rima­nendo «fuori», «nel contempo, essa pone una barriera all’onnipotenza dello Stato: poiché 'bisogna ubbidire piuttosto a Dio che agli uo­mini' ».


Guide della coscienza. Per questo a Socrate e John Henry New­man, come «guide della coscienza», Benedet­to XVI affianca Tommaso Moro, il Lord Cancel­liere di Enrico VIII, che sacrificò la vita per ren­dere testimonianza alla verità piuttosto che al potere. 


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