Negli anni seguenti, si
recò a Megara presso Euclide, poi in Egitto e a Cirene di cui non ha mai
parlato. Parla invece del viaggio che fece nell'Italia meridionale, a Taranto,
dove venne a contatto con la comunità pitagorica di Archita, e a Siracusa dove
strinse amicizia con Dione, parente e consigliere del tiranno Dionisio il
Vecchio. Entrato in conflitto con Dionisio, fu venduto come schiavo sul mercato
di Egina. Riscattato da Anniceride di Cirene, ritornò ad Atene, dove fondò nel
387 l'Accademia. La scuola di Platone, che si chiamò così perché fiorita nel
ginnasio fondato da Accademo, fu organizzata sul modello delle comunità
pitagoriche come un'associazione religiosa.
Alla morte di Dionisio,
Platone fu richiamato a Siracusa da Dione alla corte del nuovo tiranno Dionisio
il Giovane, per guidarlo nella riforma dello Stato in conformità con il suo
ideale politico. Ma l'urto fra Dionisio il giovane e Dione, che fu esiliato,
rese sterile ogni tentativo di Platone. Alcuni anni dopo, Dionisio stesso lo
chiamò insistentemente alla sua corte e Platone vi si recò nel 361, spinto
anche dal desiderio di aiutare Dione, che era rimasto in esilio. Ma nessun
accordo fu raggiunto e Platone, dopo essere stato trattenuto per un certo
tempo, quasi come prigioniero, grazie all'intervento di Archita, lasciò
Siracusa e ritornò ad Atene. Qui egli trascorse il resto della sua vita, dedito
solo all'insegnamento.
Morì a 81 anni, nel 347.
Il corpus delle opere di Platone è composto dall'Apologia di Socrate,
da 34 dialoghi e da 13 lettere, complessivamente 36 titoli ordinati in 9
tetralogie dal grammatico Trasillo (I sec. d. C.).
Platone è:
1. È considerato il padre della
metafisica occidentale;
2. è il più importante discepolo di
Socrate (“Ringrazio Dio di essere nato
nel secolo di Socrate”);
3. entra in contatto in Sicilia con la
Scuola Pitagorica dalla quale assorbe diversi contenuti;
4. supera definitivamente il relativismo
dei sofisti;
5. recupera il Mito utilizzandolo a scopo
didattico per far comprendere i passaggi più difficili della sua filosofia (Il
Mito aiuta la ragione a penetrare i misteri più alti);
6. fonda la Scuola filosofica di Atene,
l’Accademia, per preparare i futuri governanti.
Il Mito della caverna
Il mito della caverna
di Platone è probabilmente il più conosciuto tra le sue allegorie o metafore. Il mito è raccontato all'inizio del libro settimo de
La Repubblica (514 b–520 a).
1.
Si
immaginino dei prigionieri che siano stati incatenati, fin dall'infanzia, nelle
profondità di una caverna. Non solo le membra, ma anche testa e collo sono
bloccati, in maniera che gli occhi dei malcapitati possano solo fissare il muro
dinanzi a loro.
2.
Si
pensi, inoltre, che alle spalle dei prigionieri sia stato acceso un enorme
fuoco e che, tra il fuoco ed i prigionieri, corra una strada rialzata. Lungo
questa strada sia stato eretto un muricciolo, lungo il quale alcuni uomini
portano forme di vari oggetti, animali, piante e persone. Le forme
proietterebbero la propria ombra sul muro e questo attrarrebbe l'attenzione dei
prigionieri. Se qualcuno degli uomini che trasportano queste forme parlasse, si
formerebbe nella caverna un'eco che spingerebbe i prigionieri a pensare che
questa voce provenga dalle ombre che vedono passare sul muro.
3.
Mentre
un personaggio esterno avrebbe un'idea completa della situazione, i
prigionieri, non conoscendo cosa accada realmente alle proprie spalle e non
avendo esperienza del mondo esterno (ricordando che sono incatenati fin
dall'infanzia), sarebbero portati ad interpretare le ombre "parlanti"
come oggetti, animali, piante e persone reali.
4.
Si
supponga che un prigioniero venga liberato dalle catene e sia costretto a
rimanere in piedi, con la faccia rivolta verso l'uscita della caverna: in primo
luogo, i suoi occhi sarebbero abbagliati dalla luce del sole ed egli proverebbe
dolore. Inoltre, le forme portate dagli uomini lungo il muretto gli
sembrerebbero meno reali delle ombre alle quali è abituato; persino se gli
fossero mostrati quegli oggetti e gli fosse indicata la fonte di luce, il
prigioniero rimarrebbe comunque dubbioso e, soffrendo nel fissare il fuoco,
preferirebbe volgersi verso le ombre.
5. Allo stesso modo, se
il malcapitato fosse costretto ad uscire dalla caverna e venisse esposto alla
diretta luce del sole, rimarrebbe accecato e non riuscirebbe a vedere alcunché.
Il prigioniero si troverebbe sicuramente a disagio e s'irriterebbe per essere
stato trascinato a viva forza in quel luogo.
6. Volendo abituarsi
alla nuova situazione, il prigioniero riuscirebbe inizialmente a distinguere
soltanto le ombre delle persone e le loro immagini riflesse nell'acqua; solo
con il passare del tempo potrebbe sostenere la luce e guardare gli oggetti
stessi.
7. Successivamente,
egli potrebbe, di notte, volgere lo sguardo al cielo, ammirando i corpi celesti
con maggior facilità che di giorno.
8.
Infine,
il prigioniero liberato sarebbe capace di vedere il sole stesso, invece che il
suo riflesso nell'acqua, e capirebbe che: « è esso a produrre le stagioni e gli anni e a
governare tutte le cose del mondo visibile e ad essere causa, in certo modo, di
tutto quello che egli e suoi compagni vedevano».
9.
Resosi
conto della situazione, egli vorrebbe senza dubbio tornare nella caverna e
liberare i suoi compagni, essendo felice del cambiamento e provando per loro un
senso di pietà: il problema, però, sarebbe proprio quello di convincere gli
altri prigionieri ad essere liberati.
10.
Infatti dovendo riabituare gli occhi
all'ombra, dovrebbe passare del tempo prima che il prigioniero liberato possa
vedere distintamente anche nel fondo della caverna; durante questo periodo,
molto probabilmente egli sarebbe oggetto di riso da parte dei prigionieri, in
quanto sarebbe tornato dall'ascesa con "gli occhi rovinati".
11.
Questa
sua temporanea inabilità influirebbe negativamente sulla sua opera di
convincimento e, anzi, potrebbe spingere gli altri prigionieri ad ucciderlo, se
tentasse di liberarli e portarli verso la luce, in quanto, a loro dire, non
varrebbe la pena di subire il dolore dell'accecamento e la fatica della salita
per andare ad ammirare le cose da lui descritte.
Interpretazione del mito della caverna
In particolare, Platone paragona il mondo
conoscibile, cioè gli oggetti che osserviamo attorno a noi, «...alla dimora della prigione, e la luce del fuoco che vi è
dentro al potere del sole. Se poi tu consideri che l'ascesa e la
contemplazione del mondo superiore equivalgono all'elevazione dell'anima al
mondo intelligibile, non concluderai molto diversamente da me [...]. Nel
mondo conoscibile, punto estremo e difficile a vedere è l'idea del bene; ma
quando la si è veduta, la ragione ci porta a ritenerla per chiunque la causa
di tutto ciò che è retto e bello, e nel mondo visibile essa genera la luce e
il sovrano della luce, nell'intelligibile largisce essa stessa, da sovrana,
verità e intelletto».
|
Il
sole che brilla all'esterno della caverna rappresenta l'idea del bene e questo
passaggio darebbe facilmente l'impressione che Platone la concepisse come una
divinità creativa ed indipendente. Normalmente gli uomini sono tenuti
prigionieri, costretti ad osservare delle semplici ombre di forme che non sono
neanche dei veri oggetti; essi possono essere trovati soltanto "fuori
della caverna", cioè nel mondo intelligibile delle forme conosciute dalla
ragione e non dalla percezione.
Inoltre, dopo aver fatto ritorno dalla
contemplazione del divino alle "cose umane", l'uomo-filosofo
rischia di fare una "cattiva figura" se, «…prima ancora di avere rifatto l'abitudine a questa tenebra
recente, viene costretto a contendere nei tribunali o in qualunque altra sede
discutendo sulle ombre della giustizia o sulle copie che danno luogo a queste
ombre, e a battersi sulla interpretazione che di questi problemi dà, chi non
ha mai veduto la giustizia in sé».
|
Chiaramente
Platone si riferisce, tra le righe, al processo che Socrate dovette subire: tutto il mito,
infatti, diviene una metafora della vita del filosofo ateniese, che riuscì a
risalire la strada verso la verità, ma venne ucciso per aver tentato di portarla
agli uomini, incatenati al mondo dell'opinione.
Platone e la Metafisica
Platone
è considerato il primo vero metafisico. Socrate non lo era ancora del tutto,
perché cercava la definizione di cos’è una cosa, il suo concetto universale, contrapposto al particolare, ma non giungeva mai ad una conclusione
comprensibile, non gli dava un contenuto. C’era sì un’esigenza di verità, ma
che però non si concretizzava mai. Il suo “so di non sapere”, intuiva che la
verità doveva essere concettuale e universale, ma poi cosa sarebbe dovuta
essere davvero non lo sappiamo.
Platone
invece ci dice cosa sono questi Concetti e dà loro un contenuto chiamandoli
“idee”. Idea (dal greco vedere)
è un termine usato sia nel linguaggio comune che in filosofia, con diversi significati riferibili
in genere ad un concetto o una forma o una figura o un "disegno
della mente".
L’Idea,
è per noi, un contenuto mentale, un qualcosa che sta nella nostra testa. Non è
questa l’Idea di Platone, per lui è una realtà, una cosa (non fisica –
metafisica) e che non è vista con gli occhi della carne, ma con quelli della
mente. Le idee platoniche esistono indipendentemente dal soggetto che le pensa.
Per esempio: questo bicchiere esisterebbe anche nel caso in cui tutti gli uomini
scomparissero dalla terra? Per Platone sì, perché anche se l’immagine del
bicchiere è riflessa nella mente (di chi non c’è più), esiste indipendente-mente
dalla mente degli uomini.
L’Idea
è quindi qualcosa che esiste davvero, ma in un’altra sfera di realtà, come se
esistesse un altro mondo che va oltre la nostra realtà fisica, cioè
“metafisica” come sarà poi classificata.
La dottrina delle idee è il cuore di Platone.
L’Idea
Le
Idee sono quindi una realtà ontologica, cioè davvero esistente e a se stante, ovvero
che sta in un’altra sfera di realtà, che Platone chiamerà Iperuranio, un mondo ideale. Ogni idea è immutabile ed eterna, come
l’Essere di Parmenide, le cose sensibili cambiano, le cose sensibili mutano, le
cose sensibili nascono e muoiono, ma non l’Idea.
Pensiamo
per esempio all’idea della Grandezza. Una casa grande, porta con sé l’idea di
grandezza anche quando viene rifatta o distrutta. Altro esempio, l’Idea della
Bellezza di un fiore, rimane anche dopo che il fiore è appassito e non più
bello o addirittura brutto perché appassito. Una cosa grande è grande perché
partecipa all’idea di grandezza, Una cosa bella è bella perché partecipa
all’idea di bellezza. Quindi:
1.
Ogni
idea è una cosa immateriale
2.
Ogni
idea è vista con gli occhi della mente
3.
Ogni
idea è immutabile ed eterna
4.
Ogni
idea è una realtà ontologica a sé
stante
5. Ogni idea è una sostanza autonoma, un modello
unico e perfetto delle cose sensibili
Esistono
dunque due piani di realtà, due sfere d’essere.
·
Un
mondo soprasensibile, metafisico,
intellegibile, ultramondano, immutabile ed eterno (Parmenide?), e che Platone
chiama Iperuranio
·
Un
mondo sensibile, fisico, colto dai
sensi, mutevole e imperfetto (Eraclìto?)
Iperuranio (dal greco Hypèr <oltre> e Ouranòs <Cielo>)
indica la regione sovraceleste nella quale risiedono le sostanze immutabili e
che ovviamente è immateriale e a-spaziale.
Le
idee sono quindi delle realtà che esistono anche quando non sono pensate (con
gli occhi della mente), come le cose che esistono anche quando non son viste
con gli occhi della carne. Se anche non ci fosse più nessuna mente umana che
pensa il bello, il bello continuerebbe ad esistere, perché sta in un altro
mondo, in un’altra sfera di realtà quella metafisica.
Come
esistono due piani di realtà esistono anche due piani di modalità del
conoscere. Quando i greci parlano di conoscenza intendono sempre conoscenza dell’essere. Esisterà
quindi:
·
il
piano dell’Opinione, mutevole e
imperfetta che rispecchia le cose del mondo e
·
il
piano della Scienza (epistème: “che
si tiene su da sé”, “che si
stabilisce su fondamenta certe”),
immutabile e perfetta che rispecchia le idee.
le
idee sono tantissime, esistono tante idee quante sono le realtà che conosciamo.
Queste idee sono ordinate gerarchicamente e ce n’è una che le sovrasta tutte
come il sole nel nostro sistema solare e che vedremo essere l’idea del Bene.
Ci
sono poi le idee dei Valori morali
(la Giustizia, la Meritocrazia, la Solidarietà, ecc. per cui diciamo giusta
un’azione, meritoria un’altra e Solidale un altro comportamento, ecc.).
·
Ci
sono in fine le idee delle cose naturali,
delle cose inanimate, degli animali, ecc. (distinguo infatti un gatto da un
cane, da un albero, da un vulcano, da un uomo, ecc. perché rapporto ognuno di
essi all’idea che lo rappresenta e non mi lascio confondere dai suoi attributi,
alto, basso, peloso o no, dal colore, dalla razza, ecc.),
Avviene
come in matematica all’idea di cerchio, di triangolo o di poligono o a quella
di eguale o diverso.
L’idea del bene
1.
Al
vertice di tutto questo c’è l’idea del Bene.
2.
Sotto
l’idea dei Valori e degli enti matematici,
3.
più sotto ancora le Cose naturali e artificiali.
Il
Bene è ciò che dà luce e splendore a tutto il mondo ideale. Siamo ben oltre il
relativismo dei sofisti. Ricordiamo Protagora: “l’uomo è misura di tutte le
cose”. Una cosa è bella se mi piace, è calda se la sento calda è vera se la
sento vera. Per un altro sarà come la sente lui. L’Uomo è il criterio di
giudizio.
Per Platone invece il criterio di
giudizio è dato dalle idee,
che sono immutabili ed eterne. Una cosa è bella se partecipa all’idea di Bello,
è buona se partecipa all’idea di Buono, indipendentemente dalla mente che la
pensa. Le cose e le idee esistono di per sé e non sono alla mercé del pensiero
umano, mutabile e capriccioso. Se un essere è un Uomo, lo è in qualunque
condizione e situazione: schiavo o padrone, bambino o vecchio, malato o medico,
embrione o moribondo.
Platone
introduce quindi una serie di rimandi morali che caratterizzeranno il pensiero
occidentale anche quando l’uomo occidentale non vorrà riconoscerli e preferirà,
per sostenere la sua posizione politica o il suo comodo, appoggiarsi al
relativismo dei sofisti prima e degli illuministi dopo.
Il criterio di giudizio
Il criterio di giudizio non è quindi
dato dall’uomo e dalla sua testa, ma dalle Idee. Quindi solo chi “vede” il mondo
ideale è capace di discernere le cose. Gli ateniesi hanno ucciso Socrate perché
non vedevano l’idea del bene e perché non governavano i filosofi come osservava
Platone.
Se
c’è l’idea di Uomo, allora tutte le fattispecie concrete di Uomo io le devo
riconoscere in quanto partecipano all’idea di Uomo, sia il massimamente piccolo
che il massimamente grande, sia il neonato che l’anziano, sia l’embrione che il
paralitico. Non possiamo decidere noi se
uno, in un certo momento della sua vita è da considerarsi Uomo o no, quindi
usarlo come una cosa (per es. un ammasso di cellule informi) o decidere di
eliminarlo. Uomo uno lo è sempre dal concepimento alla morte. Le cose sono quel
che sono, non a seconda del nostro criterio di giudizio, del nostro modo di
pensare mutevole di tempo in tempo. Le cose sono quel che sono perché partecipano
di una realtà oggettiva, che esiste in sé ed è eterna.
È
di enorme importanza questa dottrina delle idee di Platone anche per i suoi
inequivocabili rimandi morali. Questa dottrina avrebbe potuto evitare l’eliminazione
di esseri umani a seguito di leggi umane che hanno deciso che non sono uomini i
selvaggi, gli zingari, le razze imperfette, i malati incurabili o terminali,
gli esseri umani considerati inutili o problematici o indesiderati o nocivi
alla società o semplicemente “sovrabbondanti” le possibilità gestionali dello
Stato (Hitler, Stalin, Mao, solo pochi anni fa, ma anche ora in alcuni paesi occidentali
che si ritengono più “civili” di altri).
Platone
quindi ci dimostra che solo chi è in grado di riferirsi al mondo delle idee è
in grado di vedere davvero come stanno le cose, cioè la Verità, e quindi è in
grado di guidare i popoli verso il vero Bene comune, auspicando l’avvento del governo
dei filosofi o di Re che diventino filosofi.
Le idee sono la condizione di
pensabilità degli oggetti.
Io posso pensare al libro perché questi partecipa all’idea di libro. Lo
riconosco come libro perché lo rapporto all’idea di libro, così come riconosco
un cane, anche di una razza strana e mai vista, perché lo rapporto all’idea di
cane. Il mondo ideale (l’Iperuranio) è il cuore del Platonismo.
Il Mito del Demiurgo
Platone
sente l’esigenza di capire come si passa dal mondo ideale al mondo reale. Per
fare questo introduce il Mito del
Demiurgo (di un Artefice massimo). Cioè di un dio Buono che, bontà sua, ha
la capacità di plasmare (fabbricare) con arte (artificio) una materia informe
in uno spazio (Chòra) mentre guarda le idee.
In
particolare, c’è il mondo delle Idee, rappresentato dalla luce, c’è la mano del
Demiurgo che manda questa luce sulla materia che viene da lui plasmata e prende
forma di albero, di montagna, di animale, di uomo, ecc. che confluiscono nella
Chòra (dapprima informe ed ora formata).
Mondo fisico e Mondo metafisico
Qual
è il rapporto tra il mondo fisico e quello metafisico? Platone oscilla tra tre
idee filosofiche: Mimesi, Metessi e Parusia.
Mimesi (imitazione)
Mimesi
viene dalla parola greca mimesis, mimo che significa imitazione. In particolar modo ci si riferisce
all'imitazione della realtà e della natura che è il fondamento, secondo l'estetica classica, della creazione artistica.
Ogni forma d'arte sarebbe così un'attività di mimesi. Le cose che vediamo sono
di fatto una imitazione delle idee. Sia Platone che Aristotele vedevano nella mimesi la rappresentazione della natura.
Platone
pensava che anche la creazione ad opera di un Demiurgo (un
Artefice) fosse
essa stessa una forma di imitazione e che quindi la riproposizione artistica di
questa realtà creata fosse in effetti l'imitazione di un'imitazione. Il
concetto di mimesi si applica principalmente alle arti visive, ma investe anche
la poesia, la letteratura e la musica. Dato che le cose già di per sé sono
simulacri imperfetti della realtà delle idee, le immagini artistiche risultano
"copia di una copia".
L'arte
per Platone è quindi diseducativa e distruttrice. Essa sollecita
la sfera dei sensi, la parte meno nobile dell'uomo e nel contempo ne offusca le
capacità razionali facendo appello alla fantasia e all'emozione. Ne risulta che
l'arte non può essere una forma di conoscenza ma di confusione, il cui effetto
è quello di nascondere la distinzione tra vero e falso. Le conseguenze
politiche di un tale pensiero sarebbero per Platone di una violenza senza
precedenti: l'espulsione di tutti gli artisti quale primo provvedimento
dell'insediamento di uno stato di filosofi.
Metessi (partecipazione)
La
parola metessi, dal greco mètexis,
significa genericamente partecipazione, comunicazione. Quando l’oggetto o il
valore partecipa all’idea che si ha
dell’oggetto o del Valore. Quando cioè la cosa o il valore sono in comunione
con la loro rispettiva idea. Un Uomo giovane e bello partecipa all’idea di
Bellezza, all’dea di Giovinezza e all’idea di Uomo.
Parusia (manifestazione)
Parusia è una parola che deriva dal termine
greco parousía, che significa "presenza manifesta" e indica in
generale la presenza del divino, o dell'essenza ideale, nel mondo materiale. Significa
idea che si manifesta. Le idee si
manifestano, si rendono visibili nelle cose. Il termine sarà poi usato dalla teologia cristiana per indicare il ritorno sulla terra di Gesù alla fine dei tempi.
La dottrina della conoscenza
Noi
diciamo che conosciamo le cose quando le rapportiamo alle idee delle cose
stesse, cioè all’Imitazione (mimesi), alla Comunicazione (metessi), alla
Presenza (parusia) dell’idea nella cosa. Platone però osserva che se l’idea è
una cosa perfetta, come faccio a dire che essa è presente in una cosa
imperfetta, come sono tutte le cose che esistono? Un cerchio, per esempio,
anche se disegnato da Giotto, non sarà mai perfetto come l’idea di cerchio, che
la geometria definisce come senza spessore e circoscritto da una linea senza
dimensioni fisiche e indipendente dalla lunghezza del suo raggio. Un cerchio
disegnato, basta osservarlo con un
microscopio lo troveremo decisamente distorto, ovalizzato, con spessore
variabile, ecc. Come faccio poi per esempio ad avere l’idea di una cosa che non
ho mai visto? Anche un cerchio perfetto io non l’ho mai visto, ma so
distinguere e classificare come cerchio anche uno sgangherato cerchio disegnato
da mio figlio all’Asilo.
Innatismo gnoseologico
Platone
si risponde dicendo che noi possiamo sapere delle realtà ideali, pur non
avendole mai viste perché la nostra Anima le ha già viste, perché la nostra
anima le aveva viste prima ancora di entrare nel nostro corpo, perché la nostra
anima esisteva già prima di entrare nel nostro corpo. È l’innatismo
gnoseologico, cioè è una conoscenza innata. Quando la nostra Anima, che è
spirito immateriale e che sta nell’Iperuranio, sua sede naturale, precipita nel
corpo (metempsicosi), si dimentica tutto.
Dottrina dell’Anamnesi
Ne
consegue che le cose sensibili diventano occasioni per recuperare la memoria
delle idee che già conosceva. Conoscere è
ricordare.
1.
Le
idee non possono derivare dai sensi
2.
Le
idee sono uno sguardo della mente
3.
La
conoscenza è possibile perché la nostra anima, che pre-esiste al corpo, ha già
visto le idee nell’Iperuranio di cui è parte
4.
La
conoscenza derivata dai sensi è occasione per “ricordare” le “idee” già viste
(Anamnesi).
La
teoria dell'anamnesi (o reminiscenza) di Platone può essere considerata tra i primi
e più noti esempi di innatismo della filosofia occidentale. L'esistenza dell'innatismo,
secondo Platone, era testimoniata dal fatto che le nostre conoscenze del mondo
sensibile si basano su forme e modelli matematici che non trovano riscontro in esso,
ma sembrano provenire da un luogo, l’Iperuranio, dove il nostro intelletto doveva averli contemplati prima di
nascere.
L’Anima (psyché)
È
solo con Socrate, e col suo discepolo Platone, che sarà utilizzato il termine psyché
(anima) per designare il mondo interiore dell'uomo, a cui viene ora assegnata
piena dignità.
« Il concetto di psiche
inventato da Socrate e codificato da Platone è centrale a questo proposito:
Socrate diceva che il compito dell'uomo è la cura dell'anima. Che poi oggi
l'anima venga interpretata in un altro senso, questo è relativamente
importante. Socrate per esempio non si pronunciava sull'immortalità dell'anima, perché non aveva ancora
gli elementi per farlo, elementi che solo con Platone emergeranno. Ma,
nonostante siano passati più di duemila anni, ancora oggi si pensa che
l'essenza dell'uomo sia la psyché.
[…]. Il concetto di psyché è
una grandiosa creazione dei greci. L’Occidente viene da qui».
(Giovanni
Reale, Storia della filosofia antica, Vita e pensiero,
Milano 1975)
|
Secondo
Platone, l’anima è per sua natura simbolo
di purezza e spiritualità. Ha la sua origine nel soffio divino (da cui il
significato stesso della parola, ossia: vento, soffio). Essa non
ha un inizio, in quanto è ingenerata; ed è immortale e incorporea. L’anima
presente in ogni uomo sarebbe inoltre un frammento dell’anima del mondo. Secondo la contrapposizione gnostica tra Dio
(pura perfezione, bene) e materia (imperfezione, male), ripresa dallo
stesso Platone, l’anima sarebbe stata calata da Dio in un corpo materiale e
perciò contaminata dall’intrinseca malvagità della materia stessa.
Il mito
del carro e dell’auriga
Il mito del carro e dell'auriga (o della biga alata) tratta dal Fedro di Platone, serve a spiegare la teoria platonica della reminiscenza dell'anima, un fenomeno che durante la reincarnazione produce ricordi legati alla vita precedente. Racconta di un'ipotetica biga su cui si trova un auriga, personificazione della parte razionale o intellettiva dell'anima (logistikòn). La biga è trainata da una coppia di cavalli, uno bianco e uno nero: quello bianco raffigura la parte dell'anima dotata di sentimenti di carattere spirituale (thymeidès) capace di affetti superiori, e si dirige verso l'Iperuranio; quello nero raffigura la parte dell'anima concupiscibile (epithymetikòn) e si dirige verso il mondo sensibile e gli istinti più bassi. I due cavalli sono tenuti per le briglie dall'auriga che rappresenta l’anima razionale: questa ha il compito di guidare la biga verso l'Iperuranio dove risiedono le "Idee".
Lo scopo dell'anima, infatti, è contemplare il più possibile
l'Iperuranio e assorbirne la sapienza delle idee. L'auriga quindi deve riuscire
a guidare i cavalli nella stessa direzione, verso l'alto, tenendo a bada quello
nero e spronando quello bianco, in modo da evitare o ritardare il più possibile
il "precipitare" nella reincarnazione.
Chi è precipitato subito rinascerà come una persona ignorante o comunque
lontana dalla saggezza filosofica, mentre coloro che sono riusciti a
contemplare l'Iperuranio per un tempo più lungo rinasceranno come saggi e come
filosofi. Questo mito spiega la reminiscenza ed è riconducibile all'immortalità
dell'anima.
La
conoscenza dunque consiste propriamente nel ridestarsi di un sapere già
presente in forma latente nella nostra anima, ma che era stato dimenticato
al momento della nascita ed era perciò inconscio: conoscere significa pertanto ricordare.
Secondo Platone, il ricordo avviene in forma
immediata e intuitiva, per lampi improvvisi, ma deve
essere stimolato dalla percezione sensibile, la quale dunque svolge un ruolo
importante, poiché offre all'intelletto lo spunto per avviare la reminiscenza.
Egli
descrive il concetto di innatismo soprattutto nel Menone, dove riferisce come Socrate riesca ad aiutare uno schiavo privo di cultura a comprendere il teorema
di Pitagora.
Platone vede in questo episodio la conferma della teoria dell'innatismo:
nonostante l'ignoranza in cui si trovava, lo schiavo può ritrovare da sé i
passaggi logici di quel teorema perché evidentemente erano già presenti in
forma latente nella sua mente, avendoli visti nel mondo Iperuranio delle idee prima di incarnarsi. È stato sufficiente quindi
attivare il processo del ricordo tramite la maieutica socratica.
La dialettica
Platone
ha sempre considerata la dialettica come la tecnica propria della filosofia. Ma
la dialettica non è un metodo deduttivo o induttivo nel senso che Aristotele
darà a questi termini e non si modella sul procedimento delle altre scienze,
neppure su quello della matematica. Queste scienze infatti si fondano su
ipotesi che esse non osano toccare e di cui perciò non sono in grado di
saggiare la validità: compito della filosofia è quello di mettere in
discussione queste stesse ipotesi, attraverso le conseguenze alle quali esse
portano e così determinare i limiti e le condizioni della loro validità (Rep.,
VII, 533 b-c). La filosofia può quindi mantenere un'ipotesi solo finché non ne
trova una migliore (Fed., 101 d-e); perciò è dialettica. La Dialettica di Platone è un dialogo, ma non fine a se stesso o per
il gusto di contestare il proprio interlocutore, ma per ascendere alla verità e
alla conoscenza. È quindi un’ascesa
conoscitiva. Dialogo per capire e per conoscere.
I gradi di conoscenza
C’è la Dòxa (le Opinioni) che rispecchia il mondo sensibile e l’Epistéme (La Scienza) che rispecchia il mondo metafisico, che a loro volta hanno due livelli:
Mondo sensibile
1. L’immaginazione è il primo livello di conoscenza
costruita sulla nostra immaginazione fallace. Per esempio la stessa arte è
improponibile perché è la copia di una realtà a sua volta copiata dalle idee
originali. (le ombre nella caverna)
2. La credenza. Credere che quanto vedo o tocco
sia davvero una cosa vera (e quindi non indago e non vado oltre quello che vedo
e tocco per appurare che sia davvero vera). (i
personaggi rappresentati dalle statuette trasportate)
Mondo metafisico
3. La Ragione discorsiva, cioè le idee geometriche e
matematiche che essenzializzano le cose (influenza pitagorica dell’essenza dei
numeri e dell’essenza della geometria). Platone vedeva basilare per un filosofo
essere prima di tutto un matematico per poter staccarsi dalla materia con
rappresentazioni essenziali numeriche e geometriche che prescindono dalle
determinazioni sensibili. (la realtà
rispecchiata dall’acqua appena fuori dalla caverna)
4. Intelligenza
filosofica. È il
gradino più alto della conoscenza, perché ragiona sopra i livelli precedenti
per addivenire alla verità. Cioè il
Filosofo che contempla le idee e mira alla verità con la dialettica o dialogo
costruttivo. (la realtà, una volta
abituati gli occhi allo splendore del sole).
Solo
chi ha fatto tutto questo percorso dei quattro livelli (quello dello schiavo dall’incatenamento nella caverna fino all’uscita
al chiarore del sole) può conoscere la verità. Ne consegue che solo il
Filosofo è il più indicato per governare la Città, perché vede la verità, cioè
il Bene. Come lo schiavo che torna nella
caverna ad avvisare i suoi compagni di cosa c’è veramente fuori.
Se
ad Atene avesse governato un filosofo Socrate non sarebbe stato ucciso. Ma
purtroppo è avvenuto proprio quello che è capitato allo schiavo rientrato nella
caverna per portare la verità. Non è stato creduto e addirittura ucciso per non
turbare gli equilibri di quella comunità. Non è stato visto il Bene del quale
avrebbero beneficiato tutti.
La gestione della Società
Nell’opera
“la Repubblica” Platone indica come dovrebbe essere gestita una società e i
ruoli necessari per un buon governo. Nello Stato ideale ogni individuo riveste
un ruolo a seconda della sua natura.
Frasi celebri di Platone
“Chissà
se ciò che è chiamato morire è invece vivere oppure se vivere è invece morire”
“La
democrazia è una forma piacevolissima di governo, piena di varietà e di
disordine, e dispensa una sorta d’eguaglianza agli eguali come agli ineguali”
“Ci
sarà un buon governo solo quando i filosofi diventeranno re o i re diventeranno
filosofi”
“Gli
uomini condannano l’ingiustizia perché temono di esserne vittime, non perché
aborrano di commetterla.
“l’Anima
di un uomo è immortale e incorruttibile”
Riflessioni
di don Claudio Crescimanno
È
questa una proposta che fa a noi che lo ascoltiamo e che ha fatto ai suoi
allievi e successori. Platone, suo allievo e seguace per eccellenza, stimolato
da questo interrogativo, ci da la sua risposta. Ci dice qual è la relazione fra
l’Uomo e il Mondo. La Verità è il rapporto fra il mio pensiero, la mia
intelligenza, la mia conoscenza e le Cose. Le Cose che raggiungo in modo
diretto attraverso i sensi (che sono le cose materiali) e a mezzo di questi più
ancora le cose vere, quelle che non raggiungo attraverso i sensi, ma quelle che
raggiungo attraverso il pensiero, cioè le Idee. Le Idee sono come gli stampini
dentro i quali il Demiurgo mette della sabbia umida che prende la forma
derivata dallo stampo, ma che poi tolto quello, la cosa di sabbia prende una
sua strada e una sua storia derivata si dall’idea, ma con sue proprie
caratteristiche. Con questo concetto di Verità, noi recuperiamo le cose
materiali e ne dichiariamo l’esistenza e le prendiamo per come sono.
Scetticismo
e Relativismo sono sconfitti e recuperiamo il rapporto con le cose reali.
Quindi la Verità è il rapporto realistico con le cose e la loro conoscenza, in
quanto sono il frutto di un’idea (matrice delle cose). Ma, cosa ancora più
importante, la mia intelligenza è in grado di conoscere le cose principalmente
per il fatto che io posseggo nella mia mente l’immagine della matrice che ha
generato le cose, la sua idea. Platone quindi ci fa sapere che la vera vita
dell’uomo è quella “contemplativa”, contemplativa in senso culturale, cioè come
espressione più nobile dell’Uomo che realizza completamente la sua
Spiritualità. Per Platone l’Uomo è la sua Anima, cioè la sua dimensione
spirituale, che lui vede come imprigionata nel corpo come in un involucro che
provvisoriamente la contiene per
permetterle di vivere (ma che gli è quasi estraneo) e che di fatto le pone dei
limiti. La vocazione dell’Uomo in quanto Uomo, indipendentemente dal fatto che
è quasi incarcerato nella materialità del suo corpo, non è nelle cose sensibili
(che si individuano attraverso i sensi, cioè attraverso il corpo), è quello di
dare sviluppo e piena dignità alla sua costituzione spirituale, cioè di
conoscere in modo contemplativo (prescindendo dai sensi).
La vita dell’Uomo è una vita contemplativa.
Questo vuol dire che io mi posso servire delle cose materiali, ma da queste poi
risalire attraverso i vari gradini della conoscenza, alla contemplazione delle
cose in quanto sono nella loro dimensione universale e ideale.
Ma,
quali cose, quali idee, quali forme preferire
e “contemplare”? Quelle cose, quelle idee, quelle forme, che sono le più
“nobili”, che già in se stesse sono astratte come abbiamo visto le forme della
Matematica e della Geometria, ma al di sopra di queste le forme Etiche: l’idea
del Bene (la Verità, la Bontà, la Grandezza, la Generosità, il Coraggio, la
Bellezza, ecc.). L’Uomo che si eleva contemplativamente al Bene, cioè l’insieme di tutte le idee e le
forme più nobili (Etiche = che mi migliorano, che mi fanno più grande, mi fanno
più vero, mi arricchiscono interiormente) mostra tutta la sua grandezza e la
sua unicità.
Platone
capisce che però sono pochi quelli che ci arrivano. Questi pochi sono i
filosofi che hanno una consapevolezza infinitamente maggiore degli altri di
cosa è bene e di cosa è male e che quindi dovrebbero essere loro ad avere le
qualità adatte per il governo della città. Il filosofo è l’unico in grado di
tradurre la contemplazione in azione, la verità del Bene nel Governo del Bene. Questo
il meraviglioso sogno di Platone, utopistico quanto si vuole, ma davvero
affascinante.
L’uomo “Giusto” per Platone – Joseph Ratzinger
Nella
filosofia greca è presente una singolare anticipazione di chi è Dio e di come è
fatto l’uomo e cioè l’immagine del “giusto crocifisso” tracciata da Platone.
Il grande filosofo,
infatti, nella sua opera dedicata allo Stato ideale, si domanda come dovrebbe
svolgersi la vicenda di un uomo giusto e incorrotto in questo nostro mondo; e giunge alla conclusione che
la rettitudine di un uomo risulterebbe davvero perfetta e collaudata solo
allorché egli accettasse su di sé ogni possibile imputazione d’ingiustizia (e,
così, accettasse di passare agli occhi di tutti come il “reo” per eccellenza),
poiché solamente allora sarebbe davvero evidente che egli non segue l’opinione
degli uomini, ma si allinea invece alla giustizia unicamente per amor di
quest’ultima.
Sicché, secondo Platone,
il vero giusto deve necessariamente essere un misconosciuto e un perseguitato
in questo mondo. Anzi, Platone ha l’ardire di scrivere: ”Stando così le cose, dovremo
dire che il giusto verrà flagellato, torturato, gettato in catene, accecato col
ferro rovente, e infine dopo tutto questo scempio, finirà per essere crocifisso…”.
Questo passo, scritto ben
quattrocento anni prima di Cristo, continuerà sempre a commuovere un cristiano.
Sulla base della serietà e dell’acume intuitivo del pensiero filosofico, qui si
presagisce che il perfetto “giusto”, nel mondo, non potrà essere che il giusto
crocifisso. Si ha il presentimento di quella rivelazione dell’uomo che si è
attuata sulla croce.
Ecco come siamo noi
uomini. L’evangelista Giovanni ha compendiato tutto ciò nell’espressione “Ecce
homo” sulla bocca di Pilato. Essa vuole appunto dire, e proprio in linea di
principio: “ecco come stanno le cose: questa è la vera fisionomia dell’uomo”.
(tratto da: J. Ratzinger “Introduzione al
cristianesimo” ed. Queriniana, 1990)
L’elogio di
Ratzinger alla «coscienza dell’uomo»
Etica, difesa della vita, libertà: una raccolta di
saggi
(Joseph Ratzinger – “Elogio della coscienza”
ed. Cantagalli 2009)
Sorprendente
Ratzinger.
Dignità della persona umana, aborto, eutanasia, leggi dello Stato, interventi
del magistero della Chiesa: Benedetto XVI spariglia giochi e luoghi comuni. E
scrive L’Elogio della coscienza perché «la Verità interroga il cuore ». Il
teologo, il cardinale, il Guardiano della Fede, il Papa che più di ogni altro
combatte— da oltre mezzo secolo — quella che lui stesso definisce «la dittatura
del relativismo» come vera malattia mortale del mondo contemporaneo, nel suo
ultimo libro indica un nuovo punto di prospettiva. Andando dritto verso la
trincea estrema, quella più fortificata e che sulla carta appare addirittura
inespugnabile, di tutti i relativisti. E cioè la coscienza di ciascuno e la sua
libertà.
Sul tappeto i temi della vita e
della morte, della procreazione, della pietà verso i piccoli bambini non nati
e verso i malati terminali. Testi preparati in dieci anni da Ratzinger, tra il
1991 e il 2000, per lezioni universitarie, conferenze, incontri in Italia e
all’estero. Ma che, pubblicati oggi, a quattro anni dall’elezione al
pontificato, con un lavoro di revisione e collazione tra le varie parti che ha
comportato un impegno di due anni ed è continuato fino a un mese fa, costituiscono
un discorso organico e un compiuto progetto tematico. E assumono il grande valore
di spiegare cosa sia per lui fare il Papa quando parla dei temi eticamente
sensibili o quando interviene su materie che magari si stanno dibattendo nelle
aule parlamentari. Benedetto XVI parla della coscienza di ciascuno e parla
insieme del ministero del successore di Pietro. E sulla scia dell’insegnamento
del grande convertito inglese dell’Ottocento, il cardinale John Henry Newman,
«brinda prima alla coscienza che al Papa».
Un paradosso,
se si vuole, per un Pontefice. Ma solo a un’analisi superficiale. Perché
è lì, nel cuore di ciascun uomo — che secondo la definizione di Sant’Agostino è
«capax Dei», capace di Dio, e quindi strutturalmente in grado di conoscere e
aderire alla Verità — che si fonda la stessa missione del Papa, tanto più «nell’attuale
crisi della Chiesa». Ratzinger si affida al concetto di anàmnesis elaborato da
Platone: la coscienza come ricordo o meglio come il riemergere di ciò che già
esiste da sempre nella nostra interiorità, cioè quelle verità assolute, prime,
il cui affermarsi ci permetterà di essere integralmente uomini. Scrive
Benedetto XVI: «Il significato autentico dell’autorità dottrinale del Papa
consiste nel fatto che egli è il garante della memoria cristiana. Il Papa non
impone dall’esterno, ma sviluppa la memoria cristiana e la difende. Per questo
il brindisi per la coscienza deve precedere quello per il Papa, perché senza
coscienza non ci sarebbe nessun papato. Tutto il potere che egli ha è potere
della coscienza: servizio al duplice ricordo, su cui si basa la fede e che
dev’essere continuamente purificata, ampliata e difesa contro le forme di
distruzione della memoria, la quale è minacciata tanto da una soggettività
dimentica del proprio fondamento, quanto dalle pressioni di un conformismo
sociale e culturale».
Questo
servizio alla coscienza è propriamente maieutico (usa questo termine). Si fa carico
del nostro ricordo, affinché non siamo dimentichi di noi stessi, della nostra
origine e del nostro destino. Tanto che la coscienza viene paragonata a «un
organo». Come la capacità di parlare che è innata, ma cresce e si sviluppa soltanto
se qualcun altro parla al bambino, così la coscienza ha bisogno di qualcuno
esterno a sé che la susciti e la renda forte e salda. Allo stesso tempo —
spiega Ratzinger — «capax Dei» vuol dire anche che l’uomo è «sacro » e «sotto
la protezione personale di Dio», per questo intangibile. È questo il nesso
stretto che esiste tra verità, coscienza e dignità umana, un nesso senza il
quale l’uomo e la stessa convivenza civile, secondo Ratzinger, si
autodistruggono grazie al prevalere della «grande deriva attuale in materia di
diritto alla vita» che attacca proprio quei diritti umani che pure ormai sono
universalmente riconosciuti. «Così per una dialettica intrinseca alla
modernità, dall’affermazione dei diritti della libertà, sganciati però da ogni
riferimento oggettivo in una verità comune, si passa alla distruzione dei
fondamenti stessi di tale libertà. Il 'despota illuminato' dei teorici del
contratto sociale è divenuto lo Stato tiranno, di fatto totalitario, che
dispone della vita dei più deboli, dal bambino non ancora nato al vecchio, in
nome di una utilità pubblica che non è più in realtà che l’interesse di
alcuni».
Conseguenze.
Affermazioni che non hanno solo conseguenze nella sfera morale del singolo
individuo, ma anche in quella sociale e politica «dal momento in cui Stati e
perfino organizzazioni internazionali si fanno garanti dell’aborto o dell’eutanasia,
votano leggi che le autorizzano e pongono i mezzi a loro disposizione al servizio
di coloro che li eseguono».
Potere e
Verità. A proposito della contrapposizione tra potere e
verità, e del
reciproco ruolo della Chiesa e dello Stato, Ratzinger esamina l’analisi elaborata
da Kelsen in relazione alla domanda — Che cos’è la verità? — che Ponzio Pilato
pose a Gesù Cristo al momento della condanna. Era stato il popolo a scegliere
Barabba e secondo Kelsen Pilato aveva agito da perfetto democratico, poiché il
rappresentante del potere non sa che cosa è giusto e lascia quindi che sia la
maggioranza a decidere. Ratzinger invece sottolinea il rischio totalitario di
una simile impostazione e la necessità di salvaguardare quello che definisce il
nucleo della democrazia. A riprova, cita quanto Heinrich Schielier ha scritto
proprio negli anni dell’ascesa al potere del nazismo in Germania. Insomma,
Ratzinger invita a non lasciare «il cielo ai passerotti», secondo la
parafrasi del motto brechtiano. «La speranza nei cieli non è nemica della
fedeltà alla terra», reclamata da Nietzsche, ma «è speranza anche per la
terra». Anche se la Chiesa «sa che essa sulla terra non può di per sé divenire
'Stato'... e che non le è dato di istituire sulla terra lo 'Stato di Dio'». Ma
proprio rimanendo «fuori», «nel contempo, essa pone una barriera
all’onnipotenza dello Stato: poiché 'bisogna ubbidire piuttosto a Dio che agli
uomini' ».
Guide
della coscienza. Per questo a Socrate e John
Henry Newman,
come «guide della coscienza», Benedetto XVI affianca Tommaso Moro, il Lord
Cancelliere di Enrico VIII, che sacrificò la vita per rendere testimonianza
alla verità piuttosto che al potere.
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