mercoledì 26 aprile 2017

1t - 4 - I Sofisti

Le Slides e la Dispensa















Introduzione ai sofisti


In questo che è il capitolo del senso greco della Verità dobbiamo ora inserire quello dei Sofisti che della Verità hanno tutt’altra opinione. I filosofi prima di loro infatti sono stati chiamati i “presofisti”, proprio per identificare il cambio di registro che questi hanno imposto. Con essi cambia radicalmente l’orizzonte concettuale nel quale ci muoviamo, diciamo che essi danno il via ad una svolta antropocentrica. L’interesse filosofico si sposta dalla Physis, e quindi dall’essere, dalla ricerca dell’archè, all’Uomo e alla capacità del suo conoscere.
Tutta la filosofia greca è come una scacchiera nella quale verranno giocati tutti i possibili giochi del pensiero occidentale, apre cioè un orizzonte in cui poi tutte le idee della nostra cultura occidentale si sono mosse.
I sofisti infatti sono attualissimi. Tutto il pensiero filosofico dei sofisti è la filosofia imperante oggi. Tutti i precedenti filosofi, non sono poi più stati chiamati presofisti, ma presocratici perché Platone e Aristotele bollarono i sofisti come ignobili mercenari del sapere (si facevano pagare le loro lezioni) e quindi indegni di chiamarsi filosofi anche perché non perseguivano la verità del mondo, di Dio e dell’uomo, anzi questo lo consideravano un inganno. Per questo Socrate, Platone e Aristotele combatterono strenuamente i sofisti e chi oggi combatte i loro pronipoti a loro si appoggia. Essi infatti hanno originato una vera e propria demonizzazione del sofismo, e non senza ragione, come vedremo poi. Il termine sofista comunque ha ancora oggi una accezione negativa e viene spesso attribuita ai politici che parlano tanto e concludono poco.
I sofisti vivono nel V secolo e sostanzialmente cambia anche il teatro geografico, non solo quello concettuale, perché tutti i pensatori che abbiamo trattato fino ad ora facevano parte delle colonie greche, qui invece siamo proprio ad Atene, nella grande città di Atene. Sofisti erano quelli che del loro sapere facevano una professione insegnandola dietro compenso, cosa che faceva inorridire, Socrate, Platone e Aristotele. Questi demonizzarono culturalmente i sofisti, definendolo “falsi sapienti”, “negozianti di merce spirituale” interessati più al successo e ai soldi più che alla verità e quindi non veri filosofi.
La critica filosofica moderna li ha invece molto rivalutati e li rilegge non più con quell’accezione negativa che i pilastri della filosofia greca avevano loro assegnato. Infatti il relativismo culturale che i sofisti proponevano e propongono è l’aria che respiriamo a pieni polmoni anche oggi. Se c’è una filosofia che ormai è entrata nella nostra cultura, che investe i discorsi quotidiani, i “talk televisivi”, i testi scolastici, gli incontri culturali, è proprio la cultura che affonda le sue radici nei sofisti, anche se il termine sofista preso a sé dice ancora oggi qualcosa di poco chiaro e comunque di negativo.

I Sofisti

Sofisti, ovvero sapienti, vennero chiamati quei filosofi del V  e IV  secolo a.C. che cominciarono a dare lezioni di filosofia a pagamento, facendo della filosofia una professione. Con i sofisti la filosofia greca si apre definitivamente al grande pubblico, precedentemente era stata disciplina più che altro elitaria, chiusa ed esoterica, destinata in prevalenza dai maestri ai soli allievi. I sofisti trovarono in Atene terreno fertile per il loro insegnamento, grazie ad una situazione favorevole di questa città:


1.   Benessere e tranquillità dopo la vittoria contro i Persiani e l’avvento al potere di Pericle
2.   Crisi dell’Aristocrazia e accresciuta potenza della borghesia cittadina
3.   Espansione dei traffici e dei commerci con i paesi mediterranei fino allora prerogativa solo delle colonie (Turchia e Magna Grecia, ma non ancora di Atene)
4.   Avvento della Democrazia, con nuovi parametri di giudizio.
Fu così che per questa caratteristica non più disinteressata ma legata all'esercizio di una professione (e quindi esercitata sotto pagamento), sofista divenne termine spregiativo per indicare, argomenti cavillosi e speciosi, ma anche un atteggiamento mercenario (pagato) del sapiente per dimostrare razionalmente la tesi del committente, in spregio a qualsiasi idea di verità. "Il 'sofista' è appunto colui nel quale la sophìa, rinuncia ad essere verità, è divenuta la capacità tecnica di persuadere conformemente a dei fini." (E. Severino, La filosofia antica).
Sebbene non fosse riconducibile ad una scuola precisa ma solamente a un atteggiamento generale, la sofistica si può distinguere per i seguenti punti:
1. Il relativismo, per cui la conoscenza si riduce all'opinione e il bene all'utilità. La verità e i valori morali non sono più certezze, ma si ammette che verità e valori possano mutare a seconda dei luoghi e dei tempi (atteggiamento sposato in pieno dal sentire comune fino ai nostri giorni);
2. Il concentrarsi sull’uomo piuttosto che su questioni teoretiche legate alla ricerca del principio e della giustificazione del mondo e alla ricerca di ciò che trascende l’uomo; questi primi due punti sono riconducibili in special modo a Protagora e Gorgia, mentre per la seconda fase del sofismo si possono distinguere altri due punti centrali:
3. L'eristica, abilità dei politici ovvero l'abilità di sostenere e confutare nello stesso tempo argomenti tra loro contraddittori; utilizzata poi a piene mani dai politici di tutte le epoche;
4. la legge del più forte, il riconoscimento che in natura vige la legge del più forte, cioè che esiste una contrapposizione tra la natura e la legge, tra la Verità e quello che decide la maggioranza o chi ha il potere. Nasce qui il “mito” dell’uomo fatto da sé, dell’uomo di successo, della ricchezza come dimostrazione della propria abilità e intelligenza a piegare in proprio favore le risorse umane ed economiche. Ricchezza = Potere sugli altri.
Dunque, centrale è il tema del relativismo, ovvero la consapevolezza che la realtà è filtrata e interpretata da ogni uomo in modo diverso. Nel sofismo l'argomento polemico dell'impossibilità della verità deriva dalla constatazione che ogni conoscenza è frutto di una contrapposizione tra tesi contrarie, e che tali tesi, ognuna sostenuta dalle diverse scuole di pensiero, impongono le proprie conclusioni sulle altre (come verità). Tali dissidi insanabili portano i sofisti a dichiarare l'impossibilità da parte della conoscenza umana di raggiungere la certezza e la verità universale (la verità è l'opinione, è impossibile conoscere la verità universale).

Col tempo tale atteggiamento divenne quasi una forma di estetismo della ragione, per cui la logica non era più al servizio della verità ma al servizio della confutazione e della dimostrazioni di tesi ad hoc, attraverso l'uso della retorica come strumento tecnico codificato. Molti sofisti, infatti, soprattutto nella seconda fase del movimento, organizzavano regolarmente vere e proprie esibizioni pubbliche in cui davano sfoggio delle loro abilità retorica: lo spettacolo preferito erano le antinomie, ovvero la contemporanea dimostrazione di una tesi e del suo contrario.
Alla luce di tutto ciò, alcuni studiosi hanno voluto vedere nel movimento sofistico una sorta di “illuminismo greco” ante litteram: in altre parole la Sofistica avrebbe in un certo senso anticipato alcuni motivi tipici di quel movimento culturale sviluppatosi in Europa nel XVIII secolo, l'Illuminismo appunto.


L'insegnabilità della virtù: essendo i sofisti "maestri di virtù", il loro insegnamento si basava sulle strategie per conseguirla, con fini solo utilitaristici; non essendo infatti possibile conoscere il Bene in sé, l'educazione era volta a diffondere i valori più convenienti alla vita civile dell'individuo. Per questo motivo, essi si rivolsero non solo agli aristocratici, ma anche ai ceti emergenti che aspiravano al successo.
La retorica: i sofisti non furono degli scienziati, poiché non limitavano il campo del loro sapere ad una disciplina specifica; piuttosto, per loro era importante il metodo di comunicazione, e per apprenderlo erano previsti due momenti, la dialettica (l'arte di saper argomentare) e l'eristica: (l’arte di saper vincere in una discussione). Il loro insegnamento abbracciava molte tematiche, e oltre alla morale si occuparono di problemi di diritto, ponendo la questione dell'esistenza o meno del diritto naturale (phýsis) e del suo rapporto col diritto positivo (nomos).
Per quanto riguarda le leggi e le norme i sofisti, spostandosi di città in città, si accorsero che ogni cultura ha diverse regole e leggi. Ciò fece sorgere in loro domande quali:
Ci sono regole uguali per tutti?
In genere i sofisti propendono per il no, cioè per il relativismo etico.
Vi è una cultura superiore alle altre?
Porre la domanda già equivale ad una critica delle tradizioni e ad una propensione per il relativismo culturale.
Il valore del conoscere è messo in discussione dai sofisti che affermano:
1.   l’antinomia fra ragione ed esperienza porta in primo piano la domanda sulla capacità dell’uomo di conoscere la verità.
2.   Il pensiero filosofico concentra la sua attenzione sull’uomo che conosce e sul valore della sua conoscenza.
3.   Può l’uomo raggiungere un sapere necessario e incontrovertibile se nel segno stesso della verità si è acceso un dissidio radicale fra ciò che la presunta verità dice alla ragione e ciò che la presunta verità dice ai sensi?
I sofisti quindi mettono in discussione il valore del conoscere. Essi riflettono sul fatto che i filosofi che abbiamo affrontato fino ad ora di fatto hanno detto tutto e il contrario di tutto. Chi dice che l’essere è unico e immobile, chi invece dice che tutto diviene, chi dice che esistono gli atomi, chi le quattro radici, ecc., e quindi in qualche modo non si è giunti di fatto a nulla, a nulla di incontrovertibile come voleva essere il sapere filosofico. Allora i sofisti dicono che c’è un problema di fondo, l’uomo non può conoscere l’essere, non può conoscere una realtà oggettiva. Abbiamo visto che la verità è contraddittoria con se stessa perché la ragione ci dice una cosa e i sensi invece un’altra. Quindi quella verità che si mostra Alètheia, non nascosta, in realtà è contraddittoria in se stessa. Allora significa che la verità non esiste o se esiste l’uomo non è capace di conoscerla.
Infatti il pensiero filosofico ora concentra la sua attenzione sull’uomo che conosce e sul valore della sua conoscenza. Ma può l’uomo, si chiedono questi filosofi, raggiungere un sapere necessario e incontrovertibile se nel seno stesso della verità si è acceso un dissidio radicale fra ciò che la verità dice alla ragione e ciò che la verità dice ai sensi? Il dissidio, dicono allora i sofisti, è nelle cose stesse e nella conoscenza che l’uomo ne ha.
 
Gli ordinamenti sociali con l’avvento della democrazia non sono più considerati divini, ma frutto di una convenzione fra uomini. Esiste allora un criterio o un referente oggettivo della conoscenza o comunque esiste una valida possibilità di raggiungere il vero? Tutte le cose sono in una essenziale opposizione come ci hanno descritto i grandi filosofi come Eraclìto, Anassagora, Democrito.
“il principio che tutte le cose vivano in una essenziale opposizione o contraddizione, era stato potentemente affermato da Eraclìto: la contesa, Polemos il padre di tutte le cose. Era inevitabile che fosse inteso come l’affermazione dell’esistenza dei contrari in ogni cosa. È lo stesso principio che esclude la generazione dell’essere dal non essere che portava Anassagora ad affermare che nello stesso ente coesistono i contrari. Democrito stesso affermando che il non essere è perché la verità è che ci sono gli atomi e il vuoto (quindi il non essere esiste). Grande dissidio dunque nelle cose stesse. Morale non può esistere una verità assoluta e incontrovertibile. La conoscenza della realtà non può diventare verità. Quindi abbandono totale della possibilità dell’uomo di raggiungere la verità.

PROTAGORA (Abdera 491-? a.C.)

Protagora nacque ad Abdera ma conobbe la sua fortuna ad Atene, dove Pericle, suo estimatore, gli diede l'incarico di scrivere le leggi della colonia di Turi. Purtroppo il suo periodo aureo si interruppe ben presto, quando affermò che non poteva ammettere, secondo logica, l'esistenza degli dei, cosa che gli valse l'esilio in Sicilia. Morì naufragando durante la fuga.
L'opera principale di Protagora si intitola Antilogie, ovvero "discorsi antitetici", dove ad ogni argomento corrisponde il suo contrario, in modo da dimostrare come la verità sia impossibile da raggiungere proprio nell'ambito della ragione stessa (la ragione ha in sé l'errore, per cui è impossibile dimostrare qualsiasi verità razionalmente).
L'uomo è misura di tutte le cose. Non esiste altro criterio per stabilire la verità se non l'esperienza stessa che si pone di fronte in modo diverso a uomini diversi. Solo ciò che i sensi percepiscono è reale, ciò che non percepiscono non esiste. L'uomo è misura di tutte le cose.
Ciò che viene percepito dall'uomo è il solo criterio per giudicare la realtà (e la verità). Da ciò deriva che non esiste una sola verità, perché lo stesso fenomeno percepito in un certo modo da un uomo, può essere percepito diversamente da un altro, in tal caso entrambi i giudizi costituiscono verità (ad esempio, se un uomo percepisce l'acqua di un fiume come calda, mentre allo stesso tempo e nello stesso luogo un altro uomo la percepisce fredda, entrambi gli uomini hanno ragione).
Il compito del filosofo. Se ogni uomo raggiunge la verità con i propri mezzi (seguendo le proprie percezioni), compito del filosofo non è più la ricerca della verità assoluta, (perchè la verità assoluta non esiste), ma quella di aiutare le persone a migliorare l'esposizione delle proprie idee e i propri giudizi, così da predisporli verso un sapere più ampio. Compito della filosofia elevare l’uomo a civiltà superiori in senso utilitarista.
Questo fa passare l’interesse dalla phýsis all’Uomo. Non c’è più il pensiero e la preoccupazione di come la realtà è veramente fatta e quindi da rispettare. C’è solo l’uomo che, ciascuno a modo suo, percepisce la realtà e quello che percepisce è il suo criterio di giudizio. Se sento caldo vuol dire che è caldo (caldo è la mia verità), se sento freddo vuol dire che è freddo (freddo è la mia verità). Non c’è una realtà oggettiva delle cose, la verità è relativa all’uomo (ognuno la vede come meglio crede), siamo in pieno Relativismo.
Si afferma quindi una forma di “umanesimo” (l’uomo è al centro di tutto), di “fenomenismo” (la realtà è come appare a noi, non possiamo conoscerla in se stessa) e di “relativismo”: non esiste l’assoluto, la realtà è relativa, la realtà è qualcosa di appeso che non sa dove appoggiarsi.
Protagora afferma che esiste un “principio di scelta” che egli identifica con l’Utile. Nel vuoto di verità “forti” abbiamo verità “deboli”, quelle dell’utilità privata e pubblica delle credenze. Alla concezione oggettivistica e assolutistica della verità, Protagora sostituisce una concezione umanistico-storicistica (ciò che si è dimostrato storicamente e socialmente utile). Nasce qui il concetto di “pensiero forte” che si appoggia su di un Assoluto (che per i sofisti non esiste) e il concetto di “pensiero debole” che si appoggia sull’opinione variabile di ogni singolo uomo.

GORGIA ( Leontinoi, 485 a.C. – Larissa, circa 375 a.C.)


Gorgia nacque a Lentini, in Sicilia. Si procurò fama di grande oratore, capace con la sua dialettica di rovesciare il senso comune e battere qualsiasi avversario. Questa grande capacità oratoria gli permise di accumulare una ingente fortuna economica, tra l'altro sperperata prima della sua morte, e di avere un grande seguito di allievi. Morì all'età venerabile di 108 anni a Larissa, in Tessaglia.
Gorgia era in grado di confutare qualsiasi tesi a richiesta, spesso nemmeno lui si curava troppo di credere in ciò che sosteneva, ma questo non era importante visto che, da buon sofista, predicava una verità diversa per ogni diversa situazione. Scopo della sua filosofia, non la ricerca del vero assoluto, ma la scelta delle parole più utili che gli garantissero di prevalere nello scontro dialettico.
Gorgia diede prova di grande perizia dialettica sul tema parmenideo dell'essere e del non-essere, dimostrando che:
1. Nulla esiste;
2. Se anche qualcosa esistesse, non potrebbe essere comprensibile all'uomo;
3. Se anche qualcosa fosse comprensibile, sarebbe incomunicabile.
1. Che “nulla esiste” è dimostrabile nel fatto che se esistesse qualcosa sarebbe o l'essere o il non-essere, oppure entrambi. Escludendo il non-essere, che non è, si passa all'analisi dell'essere. Esso sarebbe infinito o generato. Se fosse infinito allora non è in alcun luogo preciso e quindi non esiste. Se fosse generato allora lo sarebbe dal non-essere, e non potrebbe, o sarebbe generato dall'essere. Ma l'essere lo è già e non può generare. Quindi nulla è.
2. La seconda tesi è dimostrabile in questo modo: se non possiamo dire che le cose pensate esistono, non potremmo neanche dire che si può pensare l'essere, e se l'essere non è pensabile allora non è nemmeno comprensibile.
3. La terza tesi è spiegabile tenendo presente che l'uomo comunica solo attraverso i sensi, più precisamente trasmette l'idea di un oggetto con la parola. Ma la parola non può trasmettere l'oggetto stesso, essendo la parola solamente un simbolo. Ciò che non è espresso non può essere realtà.
La difesa di Elena. Altro argomento che diede fama a Gorgia fu la difesa di Elena, ritenuta colpevole di aver scatenato la guerra di Troia. Ne L'encomio di Elena, Gorgia sostiene che essa fu convinta a tradire il marito Menelao dalle affabulazioni verbali di Paride: ella non aveva quindi proprie colpe specifiche che ne danneggiassero la virtù.
In sostanza, Gorgia riconosceva alla parola il potere di ipnotizzare l'interlocutore fino a fargli perdere la ragione. La difesa di Elena può considerarsi, storicamente, un omaggio alla parola come edificatrice di verità, omaggio che non poteva non provenire da un sofista doc quale era Gorgia.
 “Capacità di prevalere nelle discussioni” è quello che si insegnava e per la qual cosa si esigeva un compenso perché chi meglio parla vince. Questo infatti è lo strumento indispensabile in democrazia per portare avanti le proprie idee o per negare le idee degli altri. La democrazia quindi decide cosa è vero e cosa è falso in funzione di quello che la retorica e l’eristica di  una maggioranza sentenzia contro quella di una minoranza. (Principio di utilità, ma per chi gestisce il potere).
il Pensiero non coglie l’essere e la parola non dice l’essere. la Retorica e la Dialettica sono le padrone indiscusse di questo scenario e sostenitrici di quella che Benedetto XVI  ha chiamato: “la dittatura del relativismo”.

PRÒDICO (Ceo, circa 460 a.C.Atene, forse 380 a.C.)
L'etica: Eracle al bivio.

L'etica ricoprì un ruolo importante nel suo pensiero. Questa sua attenzione alla sfera della morale e dell'etica mette infatti in crisi il pregiudizio che vede i sofisti come individui spregiudicati e avidi, strenui sostenitori del relativismo etico.

La favola di Eracle al bivio, contenuta nell'opera più famosa di Pròdico: “Stagioni” giustifica questa opinione. 

Eracle (Ercole), divenuto adolescente e giunto quindi all'età in cui deve scegliere cosa fare della propria vita, se essere virtuosi o votarsi al vizio, incontra ad un bivio due donne, personificazioni della Virtù (Areté) e del Vizio (Kakía). Entrambe tengono un discorso al giovane, per indurlo a scegliere una delle due.


La scelta di Eracle di seguire poi la Virtù è un'immagine del passaggio dell'uomo dalla sua natura originaria (phýsis) alla virtù «divina» (nomos), acquisibile per mezzo dell'educazione.

Concetto del Progresso


Pròdico guardò alla realtà del mondo con lo sguardo dell'uomo comune, ma per primo, ebbe consapevolezza della necessità di scrivere una storia in chiave antropologica (studio dell’uomo sotto tutti i punti di vista). Fu uno dei primi pensatori a delineare il concetto di progresso, se non di "evoluzione", ed a tentare di chiarire i processi secondo i quali l'uomo, creatura originariamente fatta con il fango, fosse diventato in un certo senso signore della natura.

La religione

Pròdico è anche celebre come "anticipatore" dell'evemerismo che apparve circa 150 anni dopo.
(L'evemerismo è una posizione della filosofia della religione asserita da Evemero, storico e filosofo di età ellenistica, che sostiene che gli dei rappresentino soggetti umani divinizzati).

Già il suo maestro Protagora era stato accusato di empietà, avendo assunto una posizione agnostica sugli dei, sostenendo che di questi non si può sapere niente, né se esistano né se non esistano. Pròdico invece spiegava la religione popolare sulla base della divinizzazione prima delle cose utili all'uomo e poi dei loro scopritori. Sosteneva cioè che sono stati divinizzati dapprima il sole, la luna, i fiumi, e in seguito sono nate divinità come Demetra (il pane), Dioniso (il vino) ed Efesto (il fuoco e le sue potenzialità tecniche). In questo modo, a quanto affermano le testimonianze, Pròdico ricollegava anche i riti misterici ai frutti dell'agricoltura.

Il linguaggio

Tuttavia, la fama di Pròdico è dovuta soprattutto alla sua dottrina della sinonimica o dell'esatto significato dei nomi: tale dottrina consiste essenzialmente nell'analisi semantica dei termini sinonimi e nella determinazione del loro significato preciso e univoco. Sotto questa luce Pròdico può essere considerato piuttosto come il predecessore della moderna filosofia analitica del linguaggio.

Principi fondanti della Democrazia ateniese nel V secolo a.C.


Per immaginare quale poteva essere la visione del futuro ed il progetto civico della cultura dominante ad Atene nel quinto secolo avanti Cristo, riportiamo, come testimonianza, il testo del discorso tenuto da Pericle agli ateniesi nel 461 a.C., che contiene in sintesi i concetti che stanno alla base della democrazia ateniese di quel periodo


Qui ad Atene noi facciamo così.
Qui il nostro governo favorisce i molti invece dei pochi: e per questo viene chiamato democrazia.
Qui ad Atene noi facciamo così.
Le leggi qui assicurano una giustizia eguale per tutti nelle loro dispute private, ma noi non ignoriamo mai i meriti dell'eccellenza.
Quando un cittadino si distingue, allora esso sarà, a preferenza di altri, chiamato a servire lo Stato, ma non come un atto di privilegio, come una ricompensa al merito, e la povertà non costituisce un impedimento
Qui ad Atene noi facciamo così.
La libertà di cui godiamo si estende anche alla vita quotidiana; noi non siamo sospettosi l'uno dell'altro e non infastidiamo mai il nostro prossimo se al nostro prossimo piace vivere a modo suo.
Noi siamo liberi, liberi di vivere proprio come ci piace e tuttavia siamo sempre pronti a fronteggiare qualsiasi pericolo.
Un cittadino ateniese non trascura i pubblici affari quando attende alle proprie faccende private, ma soprattutto non si occupa dei pubblici affari per risolvere le sue questioni private.
Qui ad Atene noi facciamo così.
Ci è stato insegnato di rispettare i magistrati, e ci è stato insegnato anche di rispettare le leggi e di non dimenticare mai che dobbiamo proteggere coloro che ricevono offesa.
E ci è stato anche insegnato di rispettare quelle leggi non scritte che risiedono nell'universale sentimento di ciò che è giusto e di ciò che è buon senso.
Qui ad Atene noi facciamo così.
Un uomo che non si interessa allo Stato noi non lo consideriamo innocuo, ma inutile; e benché in pochi siano in grado di dare vita ad una politica, beh tutti qui ad Atene siamo in grado di giudicarla.
Noi non consideriamo la discussione come un ostacolo sulla via della democrazia.
Noi crediamo che la felicità sia il frutto della libertà, ma la libertà sia solo il frutto del valore.
Insomma, io proclamo che Atene è la scuola dell'Ellade e che ogni ateniese cresce sviluppando in sé una felice versatilità, la fiducia in se stesso, la prontezza a fronteggiare qualsiasi situazione ed è per questo che la nostra città è aperta al mondo e noi non cacciamo mai uno straniero.
Qui ad Atene noi facciamo così.

Pericle (495-429 a.C.) è stato un politico, oratore e capo militare ateniese durante il periodo d'oro della città, tra le Guerre persiane e la Guerra del Peloponneso. Pericle favorì lo sviluppo delle arti e della letteratura e questa fu la principale ragione per la quale Atene detiene la reputazione di centro culturale dell'Antica Grecia. Promosse, allo scopo di dare lavoro a migliaia di artigiani e cittadini, un ambizioso progetto edilizio che portò alla costruzione di molte opere sull'Acropoli (incluso il Partenone). Nel 461 a.C. Pericle viene nominato capo dei 10 strateghi. Alla guida di Atene attua una riforma democratica in senso stretto che conferisce a tutti i cittadini ateniesi di partecipare alla vita politica e all'amministrazione dei beni pubblici. La sua politica interna è imperniata sulla promozione dell'arte e della cultura, sull'attuazione di riforme sociali e di riforme democratiche.

Riflessioni (di don Claudio Crescimanno)


I sofisti sono l’espressione della diffidenza, del disinteresse e dell’indifferenza dell’uomo di fronte al bisogno di verità che è insito nell’uomo e che i primi filosofi si “scervellarono” per tentare di risolverlo proprio con l’arma del ragionamento che li liberava dalla soggezione di più o meno fantastiche spiegazioni mitologiche che non soddisfacevano più.
Quelli che abbiamo poi chiamato “i presocratici” in altre parole si domandavano:
·         Cos’è la realtà?
·         Come è fatta la realtà
·         Che senso ha la realtà?
·         Quali sono i principi che la governano?
·         Perché l’esistenza?
·         Cosa è e Cosa non è?
·         Cos’è l’Essere, il vero e il falso?
·         Perché più si analizza la realtà più si scoprono concetti contradditori?
·         La realtà è una, stabile e immobile, o è in movimento, sempre diveniente, molteplice, variegata, diveniente, ecc.
·         Come possiamo fare per raggiungere allora la verità?
Dovremo avere la pazienza di aspettare che da filosofo a filosofo, da scuola di pensiero a scuola di pensiero, da ragionamento a ragionamento ci si avvicini sempre di più alla Verità, anche a costo di non raggiungerla mai pienamente. Certo staremo fermi nell’ignoranza della Verità se pensassimo che l’ultimo e definitivo capitolo fosse quello del relativismo. Saremmo così autorizzati a non pensarci più. Mi par di vedere la volpe che non riuscendo a raggiungere l’uva si giustifica dichiarando che in fin dei conti non è ancora matura, cioè non ne vale la pena far fatica per raggiungerla.
Vedremo che l’uomo di generazione in generazione e con tanta pazienza riuscirà a capire che è di fatto immerso in una realtà, molto più grande di lui, cioè che supera i suoi limiti, ma non per questo non esiste.
I sofisti però non accettano questo, hanno fretta di arrivare ad una definizione finale che tolga anche la speranza di trovarla la verità. Definendo che la verità assoluta non esiste si sono tolta la preoccupazione di cercarla e capirla.
La realtà invece non può essere compresa dall’uomo perché comprende si l’uomo, ma non è a misura dell’uomo (cioè misurabile e completamente capibile dall’uomo). La realtà ha bisogno di essere esplorata e compresa poco alla volta, a piccoli passi spalmati nel tempo. Ogni piccolo passo è conseguenza dello sforzo del passo precedente. Ciascun filosofo, ma anche ciascun uomo, è un piccolo tassello di questo percorso verso la verità, quasi fosse un piano di studi o di ricerca che dura tutta la nostra vita.
Il sofismo, nella storia del pensiero, è un disagio che mette in difficoltà il rapporto fra l’uomo e la realtà e genera una vera e propria malattia che apre la porta a quella che è dapprima creduta una medicina, ma che diventerà in poco tempo un veleno sottile e dilagante: l’ideologia.

2.000 anni dopo Protagora e Gorgia, Jean-Jacques Rousseau (17121778) ebbe influenze importanti nel confezionare un’ideologia, egualitaria e anti-assolutistica, che poi divenne la base della Rivoluzione francese del 1789 e degli enormi danni che ne seguirono, massacri di civili e soldati per tutta l’Europa, guerre dal “Manzanarre al Reno”, sconvolgimenti sociali, morali e religiosi, sopraffazioni, sequestri, requisizioni di beni, olocausti, ecc. Cose che puntualmente si ripeterono per le altre ideologie dell’’800 e del ‘900.
Possiamo partire dall’affermazione di Rousseau: “innanzi tutto togliamo di mezzo i fatti”, i fatti non ci interessano, ci interessa l’uomo e la sua intelligenza, usata non per cercare la verità che non esiste, ma per affermare la sua capacità di decidere cosa è bene per me e per gli altri. Unico riferimento me stesso, al di fuori di me stesso nessuno può permettersi di dirmi cosa debbo o non debbo fare. Non esiste e non deve esistere nessuna autorità che mi imponga qualcosa. Contemporaneamente chi convince con la sua retorica e con la dialettica cosa è bene per tutti, questo è giusto venga imposto a tutti. In altri termini deve prevalere il potere del convincimento, cioè della parola. Mettiamo da parte i fatti, l’essere e il non essere, la realtà, la verità, la phýsis e pensiamo a cosa invece ci conviene fare per affermare noi stessi. I sofisti si facevano pagare per insegnare l’abilità di convincimento, come oggi si fanno pagare gli istituti di formazione professionale per insegnare le tecniche di vendita e di persuasione all’acquisto, così come le tecniche di persuasione ideologica.
Questa aberrazione dell’uomo pensante nei confronti della realtà, questo abbandono della ricerca rigorosa delle Verità fece arrabbiare molto i filosofi che seguirono, ma da Rousseau in poi è diventata quasi una religione universale: “non è vero quello che la realtà ci mostra, è vero quello che la mia percezione mi dice essere vero, almeno in questo momento e in questa situazione”.
La fisiologia dei sofisti è in realtà un problema nosologico (da nosologia: nosos, "malattia" e logos, "parola" o "discorso". È la scienza che si occupa della classificazione sistematica delle malattie), una malattia della Conoscenza quindi. Lo sguardo non è più concentrato sulle cose, sulla realtà, sulla phýsis, sull’insieme delle cose, sul mondo che ci circonda e di cui noi stessi siamo parte, ma è concentrato sull’uomo centro di tutto e protagonista unico del tutto. Tutto quindi dipende dallo strumento “intelligenza” dell’uomo, non dallo strumento della “ragione” dell’uomo che indaga e si immerge nella realtà, ma dall’intelligenza del singolo e dalla sua capacità di comunicarlo.
Ciò che vede, ciò che capisce, ciò che a lui sembra, ciò che lo convince, la sua opinione (relativa al suo pensare). Questo pensiero è oggi, come ieri, battezzato “Pensiero debole”, in antitesi con il “Pensiero forte” di chi ha saldi punti di riferimento nella sua ricerca dell’essere e della realtà.
Se ognuno di noi percepisce la realtà riferendosi solo a se stesso, vuol dire che il mondo è come sembra a me, per cui ognuno di noi ha il suo mondo nel quale si muove liberamente. Si, ma cosa succede quando il mio mondo entra in collisione con quello di un altro? Dobbiamo ammettere che il nostro mondo fa parte di un insieme di mondi che pur muovendosi ciascuno autonomamente si possano incontrare o scontrare? Qui entra in ballo la nostra capacità di convincimento, per convincere l’altro e gli altri che il mio mondo è il migliore per cui vale la pena di accettare la mia verità e … che vinca il migliore! Abbiamo inventato la Democrazia. L’idea meglio espressa viene così adottata e guai a chi vi si oppone, altrimenti non ne veniamo più a capo.

Lo Stato Etico


Ma chi si fa carico dell’adozione e realizzazione di quanto deciso dalla maggioranza e della gestione di chi non ci sta, la minoranza? Risposta: è lo Stato, ovviamente guidato dai vincitori. Lo Stato quindi come elemento unificatore al posto della verità. Si chiamerà Stato etico perché deve decidere per tutti i membri della sua collettività, ciò che è bene, ciò che è male, ciò che è vero, ciò che è falso, ciò che è applicabile e ciò che non lo è, ecc. il Relativismo dei singoli individui produce lo Stato etico e quindi la dittatura culturale del relativismo e di chi è chiamato a dirigerlo e che è quello (o quelli) che è stato più convincente di altri per ottenere questa autorità e questo potere.
Da questi ragionamenti nasce non solo la Dittatura del Relativismo, ma anche la Dittatura di Capi di Stato, ovviamente per il bene di tutti, perché non si può andare avanti con continue discussioni fra rappresentati della miriade di mondi di ciascuno raggruppati in una miriade di partiti.
La Storia, sempre poco ascoltata, ci rammenta che le ideologie che si sono succedute e che hanno prodotto rivoluzioni come quella francese, tanto osannata ma anche tanto crudele e ingiusta, ha poi provocato come una reazione a catena altre rivoluzioni, altrettanto crudeli e disumane, che hanno a loro volta trasformato lo Stato etico in una Dittatura. Nella Dittatura è vero solo ciò che il leader politico o militare decide essere vero, tutti gli altri debbono sottostare pena la condanna a morte, alla prigionia nei lager, il confino e comunque alla vergogna di non pensarla come il Salvatore delle patria del momento.
Tanto per non fare dei nomi: Napoleone, Mussolini, Hitler, Lenin, Stalin, Mao, ecc. e le rispettive ideologie che anche se apparentemente morte subiscono improvvisi risvegli o riappaiono camuffate da partiti con nomi nuovi o mutazioni di adattamento. Lo slogan potrebbe essere “non è bello quel che è bello, ma è bello quel che piace” oppure “ ‘u scarafone è bello a mamma sua”. Che comunque è un’ottima modalità per imporre il Potere di chi ce l’ha a chi non ce l’ha e squalificare idee contrarie.
L’esperienza della dittatura ha poi portato l’uomo a definire un metodo per evitarla. Decidere cioè insieme qual é la verità alla quale fare riferimento, almeno per un certo periodo per poter sopravvivere alla miriade di realtà proponibili e gestire in qualche modo le comunità umane, mettendo dei paletti, le leggi, a cui tutti dovranno obbedire almeno finché non saranno rimesse in discussione. Ma con quale criterio? Con quello della Democrazia, si votano i propri rappresentanti e quello che propone la maggioranza di essi diventa legge o guida per tutti e chi si oppone va contro la legge e subirà delle sanzioni.
Così si stabilisce che l’omicidio è reato, ma poi in un momento successivo si stabilisce, sempre con il criterio della maggioranza, che l’uccisione di un uomo in formazione nel seno della madre non è da definirsi uomo per cui può essere eliminato o scartato (proibito dire ucciso, altrimenti si dovrebbe ammettere che è già un essere vivente). Tanto la verità assoluta non esiste e possiamo inventarcela come vogliamo a seconda del bisogno o della necessità (o dell’utilità di chi comanda).
Il linguaggio, cioè il sofisticato uso del linguaggio, patrimonio delle scuole dei sofisti che era dato a conoscere a pochi privilegiati aspiranti politici, ha oggi una madornale amplificazione attraverso i mass media e i social network e viene abilmente usato dai ricercatori, non della verità, ma del potere, o meglio, da chi è il più abile e convincente “venditore” del proprio modo di vedere la realtà (e curare i propri interessi, più o meno legittimi) e di governare i suoi “sudditi” o i suoi seguaci o i momentaneamente convinti a votarlo e sostenerlo. La cosa è così sopraffina, o meglio sofisticata, che anche le singole parole possono contenere di volta in volta significati contrastanti o manipolati.
Possiamo partire da una operazione apparentemente innocua come quella di  cambiare, “cieco” in “non vedente”, “paraplegico” in “diversamente abile”, “spazzino” in “operatore ecologico”, “prostituta” in “professionista del piacere”, ecc. fino a chiamare “eutanasia” l’eliminazione di un anziano che crea problemi o “suicidio assistito” o la decisione che è meglio per lui e per tutti che gli venga tolta la vita non più degna di essere vissuta.

È definita “maternità e paternità responsabile” eliminare un bambino indesiderato o probabilmente difettoso e farlo quando è così piccolo da fare meno impressione, o quando si crede che soffra poco. È chiamata “educazione sessuale” l’apprendimento di tecniche (contraccettive e abortive) per evitare il concepimento quando capita di praticare “l’amore libero” a qualunque età e con chiunque, ed è spacciata come grande passo in avanti di civiltà (come mettere nelle scuole macchinette per la distribuzione di contraccettivi, possibilmente gratuiti e a carico della comunità).
Nessun riferimento ovviamente alle logiche del rapporto affettivo e dell’Amore. “Diritto civile” cambiare moglie o marito e sacrificare al proprio egoismo una corretta educazione dei figli che invece hanno un feroce bisogno di essere amati e di vedere che i propri genitori si amano. “Conquista civile” legalizzare forme indiscriminate di libertà, ecc. per non parlare del fatto che ogni problema o evento negativo è per definizione colpa di qualcuno.
Si cerca sì il modo di rimediare, ma essenzialmente si cerca chi è stato direttamente o indirettamente causa di quel male. Ci deve sempre essere qualcuno che non ha rispettato le sacrosante regole o leggi dello Stato etico. Non esiste il vero assoluto, è vero solo quello che è stato stabilito essere vero. Quindi non esiste una legge sbagliata o un evento fortuito o un evento impossibile da prevedere, ma esiste chi ha sbagliato. Arriva uno “tzunami” o un terremoto che distrugge una intera città? È colpa dell’ente preposto a prevederlo e dei suoi uomini. Cade un aereo durante una tempesta? È colpa di chi ha dato il permesso al volo e di chi ha progettato l’aereo non in grado di sopportare una tempesta. Muore un uomo in sala operatoria è sicuramente colpa del chirurgo, ecc. per fortuna non è sempre così, ma chi sta davanti al televisore in genere percepisce proprio questo.
Qui l’affermazione che “i figli delle tenebre sono più furbi dei figli della luce” ci porta ad aggiungere un’altra considerazione.
L’ideologia può anche essere vista come lo strumento principe del principe di questo mondo, detto anche principe delle tenebre, perché fa di tutto per tenere l’uomo all’oscuro della Verità. Il termine "diavolo" deriva dal greco diábolos, ("dividere", "colui che divide", "calunniatore", "accusatore"); Il significato in ebraico sarebbe "avversario", "colui che si oppone", "accusatore in giudizio", "contraddittore”. Un altro significato interessante, legato a quello di calunniatore, è quello di “seduttore” che con la menzogna inganna e produce profonde fratture tra l’uomo e la Verità (Genesi). Avrà Satana, visto il successo della sua arte seduttiva con Adamo ed Eva, messo il suo zampino anche nel V  secolo a.C., quando si è accorto che gli uomini si davano troppo da fare per conoscere la Verità?

Concludiamo con uno stralcio dell’ Omelia del Cardinale Joseph Ratzinger alla MISSA PRO ELIGENDO ROMANO PONTIFICE del Lunedì 18 aprile 2005 nella Basilica di San Pietro.

… soffermiamoci solo su due punti. Il primo è il cammino verso “la maturità di Cristo”; così dice, un po’ semplificando, il testo italiano.
Più precisamente dovremmo, secondo il testo greco, parlare della “misura della pienezza di Cristo”, cui siamo chiamati ad arrivare per essere realmente adulti nella fede. Non dovremmo rimanere fanciulli nella fede, in stato di minorità. E in che cosa consiste l’essere fanciulli nella fede? Risponde San Paolo: significa essere “sballottati dalle onde e portati qua e là da qualsiasi vento di dottrina…” (Ef 4, 14). Una descrizione molto attuale!
Quanti venti di dottrina abbiamo conosciuto in questi ultimi decenni, quante correnti ideologiche, quante mode del pensiero... La piccola barca del pensiero di molti cristiani è stata non di rado agitata da queste onde - gettata da un estremo all’altro: dal marxismo al liberalismo, fino al libertinismo; dal collettivismo all’individualismo radicale; dall’ateismo ad un vago misticismo religioso; dall’agnosticismo al sincretismo e così via. Ogni giorno nascono nuove sette e si realizza quanto dice San Paolo sull’inganno degli uomini, sull’astuzia che tende a trarre nell’errore (cf Ef 4, 14). Avere una fede chiara, secondo il Credo della Chiesa, viene spesso etichettato come fondamentalismo. Mentre il relativismo, cioè il lasciarsi portare “qua e là da qualsiasi vento di dottrina”, appare come l’unico atteggiamento all’altezza dei tempi odierni. Si va costituendo una dittatura del relativismo che non riconosce nulla come definitivo e che lascia come ultima misura solo il proprio io e le sue voglie.
Noi, invece, abbiamo un’altra misura: il Figlio di Dio, il vero uomo. É lui la misura del vero umanesimo. “Adulta” non è una fede che segue le onde della moda e l’ultima novità; adulta e matura è una fede profondamente radicata nell’amicizia con Cristo. É quest’amicizia che ci apre a tutto ciò che è buono e ci dona il criterio per discernere tra vero e falso, tra inganno e verità. Questa fede adulta dobbiamo maturare, a questa fede dobbiamo guidare il gregge di Cristo. Ed è questa fede - solo la fede - che crea unità e si realizza nella carità. San Paolo ci offre a questo proposito – in contrasto con le continue peripezie di coloro che sono come fanciulli sballottati dalle onde – una bella parola: fare la verità nella carità, come formula fondamentale dell’esistenza cristiana. In Cristo, coincidono verità e carità. Nella misura in cui ci avviciniamo a Cristo, anche nella nostra vita, verità e carità si fondono. La carità senza verità sarebbe cieca; la verità senza carità sarebbe come “un cembalo che tintinna”. (1 Cor 13,1).


La lezione della “Veritatis Splendor

di Ettore Gotti Tedeschi  03-04-2014
Il Papa emerito Benedetto XVI ha recentemente esortato a rileggersi l’Enciclica Veritatis Splendor, scritta nel 1993 dal Sommo Pontefice santo Giovanni Paolo II. Vale la pena sottolineare alcuni passaggi di questa Enciclica, che tratta temi molto attuali anche venti anni dopo. 
Veritatis Splendor parte da una constatazione dolorosa, cioè che il patrimonio morale, e persino il magistero della Chiesa, è oggi messo in discussione. Persino all’interno della stessa comunità cristiana. Si mette in discussione la dignità (di creatura) dell’uomo e le leggi naturali (della Creazione). Lo aveva già ben detto Paolo VI in Humanae Vitae e Populorum Progressio, e lo dirà più tardi Benedetto XVI in Caritas in Veritate. Dice papa Giovanni Paolo II in Veritatis Splendor che urge pertanto che la Chiesa possa precisare quegli aspetti dottrinali da cui non si può prescindere. E ciò per far fronte ad una “vera crisi” (anche economica) che Giovanni Paolo II aveva previsto in Sollecitudo Rei Socialis. Li possiamo chiamare valori imprescindibili, perchè insegnati da Gesù Cristo? Comunque non sono poi tanti e possiamo sintetizzarli brevemente. 
Cristo stesso (appunto) li indica al “giovane ricco” (Mt 19,17): osserva i Comandamenti. A questi dieci, sempre Cristo aggiunge i due suoi comandamenti dell’amore di Dio e del prossimo (Lc 10,27). Cristo stesso, magari preoccupato che l’uomo si trovasse in difficoltà nell’applicazione di molti comandamenti, sintetizza poi nel Discorso della Montagna (Mt 5,17) cosa è la morale evangelica, da cui segue l’etica comportamentale. A questo punto non c'è molto da aggiungere. Eppure papa Giovanni Paolo II vuole dirci qualcosa in più. Ci dice che dobbiamo vivere i precetti in “unità di vita”: fede e vita devono esser in armonia ed in più non si può avere un comportamento diverso tra casa e bottega, tra oratorio e parlamento. Ecco cosa è unità di vita.  
Ma la parte più intrigante dell’Enciclica inizia al secondo capitolo dove il Papa chiarisce il rapporto tra Libertà e Verità. Straordinario, da studiare e divulgare. Con parole mie, e con i miei limiti, cercherò solo di dare al lettore una sintesi. Il Papa ci spiega che la Verità viene prima della libertà (cioè nega quello che tutta la cultura illuminista afferma da un paio di centinaia di anni). Non c’è vera autonomia morale della libertà che prescinda dalla Verità, la libertà non è un valore assoluto né sorgente di valori. Le leggi naturali della Creazione sono leggi eterne anche se messe in discussione dalla ragione umana. Ed è comunque la Sapienza divina che ha generato la ragione umana, che resta tale anche in una natura decaduta. Infatti mantiene la capacità di essere “creativa nella coscienza”, senza magari sforzarsi di conoscere e capire la Verità e il suo vincolo con la libertà umana. Ed ecco che il buon padre Giovanni Paolo II ci viene in soccorso assicurandoci che è la Chiesa, ed il suo Magistero, che deve aiutare la formazione delle coscienze. 
Ricordiamolo: è la libertà, responsabile, che segue la Verità. E’ Gesù stesso, che è la Verità, ad esaltare la libertà umana dicendo “vieni e seguimi”. Che succede se non Lo si segue? Succede che si resta liberi di comportarsi come animali, ma animali intelligenti, che invece di alimentarsi di spirito, intelletto e materia, scelgono solo la materia. Al massimo materia ed intelletto. E’ Cristo la libertà che libera gli uomini dal peccato e ridà loro la dignità originale della Creazione. E grazie a ciò gli uomini riprendono la certezza del senso della vita e delle azioni libere e buone. E, aggiunge ancora Giovanni Paolo II, un fine buono (le azioni libere e buone) non si ottiene con mezzi cattivi

Approfondimenti sulla "Veritatis splendor"

di  P. Georges Cottier, O.P.

Introduzione

L’enciclica Veritatis splendor del 6 agosto 1993 intende precisare alcune "questioni fondamentali dell’insegnamento morale della Chiesa", usando un necessario discernimento sulla controversia tra specialisti dell’etica e della teologia morale.
Perciò non presenta un insegnamento completo della dottrina morale cristiana . Tratta un numero limitato di problemi. Quindi il documento deve essere letto in riferimento all’ampia sintesi del Catechismo della Chiesa cattolica. Trova il suo significativo proseguimento nelle encicliche Evangelium vitae (1995) Fides et ratio (1998).
Il rinnovamento della teologia morale auspicato dal Concilio Vaticano II ha dato frutti notevoli. Ma alcuni teologi, basandosi su concezioni antropologiche e etiche non sufficientemente criticate, sono riusciti ad una messa in discussione sistematica del patrimonio morale della Chiesa.
- La competenza del Magistero in materia morale è stata messa in causa. Si è trattato di una vera crisi. Bisognava raccogliere la sfida.
La crisi della teologia è la ripercussione della frattura, a livello culturale, sotto l’influsso di diverse correnti di pensiero, tra libertà verità, per le quali la sola libertà, nella sua completa autonomia, sarebbe creatrice di valori. Nessun teologo difende una posizione così estrema. Ma alcuni hanno posto, nell’ambito di comportamenti che chiamano "inframondani" un’autonomia della ragione che vuole significare, la capacità di creare delle norme morali riguardanti il "bene umano" indipendentemente dalla Rivelazione e dal Magistero.
La crisi del legame intrinseco tra fede e morale concerne direttamente la teologia con delle conseguenze pastorali evidenti. (Morale: Relativo ai costumi, cioè al vivere pratico, che comporta una scelta consapevole tra azioni ugualmente possibili, ma alle quali compete o si attribuisce valore diverso o opposto: bene e male, giusto e ingiusto). Misconoscere cioè che la fede pone l’esigenza di un impegno coerente che abbraccia tutta la vita e che, di conseguenza, comporta l’osservanza dei comandamenti, di tutti i comandamenti, di tutta la legge divina, porta ad un disorientamento totale che apre le porte ad un mondo sempre più privo del suo Dio e quindi in preda al caos (Caos: il complesso degli elementi materiali senza ordine che preesiste all’universo ordinato).

La "sequela Christi"

Il primo capitolo è una meditazione della Sacra Scrittura. Nel giovane uomo che si avvicina a Gesù e gli chiede "Maestro Che cosa devo fare di buono per ottenere la vita eterna?" (Mt 19, 16-22), possiamo riconoscere ogni uomo. È verso Cristo che dobbiamo rivolgere il nostro sguardo per rispondere alla questione morale: qual è il comportamento giusto che ci indica il Figlio di Dio, venuto al mondo per questo?
Via via che prosegue il dialogo tra Gesù e il giovane uomo, la meditazione scopre il contenuto essenziale della Rivelazione dell’Antico e del Nuovo Testamento circa l’agire morale: la subordinazione dell’uomo e del suo agire a Dio, a Colui che "solo è buono"; il rapporto tra il bene morale degli atti umani e la vita eterna; la necessità di osservare i comandamenti contenuti nella Legge divina e portati a compimento da Gesù; la sequela di Cristo, che apre all’uomo la prospettiva dell’amore perfetto; ed infine il dono dello Spirito Santo, fonte e risorsa della vita morale della "creatura nuova" (cf. n. 28). In questo modo sono appagate, al di là di ogni aspettativa, le aspirazioni più profonde del cuore umano alla vita e alla felicità.
Rileviamo qui l’importanza del tema della sequela Cristi che significa senza dubbio imitazione ma anche, più radicalmente, partecipazione alla sua vita. Vita di libertà nella sua obbedienza quale espressione del suo amore per il Padre fino al dono di se sulla Croce (cf. n. 19-21). In tal modo sono poste in evidenza la novità e l’originalità della morale cristiana, come il legame intrinseco che unisce la fede e la morale: la fede, come sequela Christi, ha anche un contenuto morale: "Non si tratta qui soltanto di mettersi in ascolto di un insegnamento e di accogliere nell’obbedienza un comandamento; si tratta più radicalmente, di aderire alla persona stessa di Gesù, di condividere la sua vita e il suo destino, di partecipare alla sua obbedienza libera e amorosa alla volontà del Padre". Come? Pregando e leggendo il Vangelo. I tre libri su Gesù di Nazaret di Benedetto XVI sono un grande aiuto in proposito, lo avvicinano al nostro cuore.
Si può vedere inoltre quanto la tendenza alla secolarizzazione della morale possa fuorviare: la risposta di Gesù alla domanda del giovane mostra che la questione morale è, alla radice, ed è una domanda religiosa (cf. n. 9). Infine, bisogna rilevare la dimensione ecclesiale della morale cristiana e la missione del Magistero della Chiesa (cf. n. 25, 26).

Libertà e verità

Il secondo capitolo enuncia alcuni principi tramite i quali è possibile portare un giudizio su alcune tendenze attuali della teologia morale che sono in opposizione alla "sana dottrina". Non si tratta affatto di un rigetto globale ma di un esame critico che consente di individuare possibili ambiguità e pericoli (e chiarirli) e al contempo di evidenziare quanto di utile e di prezioso vi è contenuto (cf. n.34). L’enciclica si propone quindi di ricordare e rafforzare un certo numero di presupposti della teologia morale cattolica.
Il problema fondamentale è il rapporto della libertà umana alla verità. Alcune tendenze della nostra cultura sono arrivate ad indebolire o addirittura a negare la dipendenza della libertà dalla verità (ibid), cioè di negare che la verità ci rende liberi.
Quindi il problema morale rimanda al problema antropologico (antropologia: scienza dell’uomo, considerato sia come soggetto o individuo, sia in aggregati, comunità, situazioni) e l’antropologia a sua volta è illuminata dalla luce del mistero del Verbo incarnato, secondo la dottrina sviluppata dalla Gaudium et Spes, n. 22. In questa luce, infatti, percepiamo tutta la ricchezza del tema dell’immagine di Dio. La morale e le sue esigenze si comprendono soltanto partendo dalla visione dell’uomo come immagine di Dio.
Va da se che il modo di comprendere il rapporto tra la libertà e la verità ha un’incidenza diretta sul modo di concepire il rapporto tra la libertà e la legge.
Alcune correnti di pensiero sono giunte ad affermare l’autonomia assoluta della libertà: l’autonomia morale significherebbe una completa sovranità. La libertà sarebbe allora creatrice della verità o dei "valori" (cf. n. 35). Spesso, tale sovranità, viene attribuita alla ragione umana. Le tendenze culturali in questione hanno esercitato un loro influsso anche nell’ambito della morale cattolica: attribuiscono all’uomo la facoltà di dare a se stesso le leggi morali relative al retto ordinamento della vita in questo mondo (cf. n. 36). Una distinzione contrastante è stata introdotta tra un ordine etico, che avrebbe origine solo umana, e un ordine della salvezza, per il quale avrebbero rilevanza solo alcune intenzioni ed atteggiamenti interiori circa Dio e il prossimo (cf. n. 37). Ennesimo tentativo di dividere e scollegare ciò che è umano da ciò che è divino, ossessione del principe di questo mondo che soffre terribilmente l’amore di Dio per l’uomo.
È necessario parlare del senso vero dell’autonomia morale dell’uomo che si può definire teonomia partecipata (Il termine teonomia è usato per descrivere il Dio rivelato nella Bibbia come unica fonte possibile dell'etica e della morale, in contrasto con autonomia, cioè la facoltà o la pretesa dell'essere umano di stabilire esso stesso le regole del proprio comportamento). L’uomo creato libero, partecipa della signoria divina, in quanto è chiamato al governo di se stesso. La sua autonomia morale è quindi un’autonomia partecipata.
La dottrina della legge naturale spiega questo punto importante. La legge naturale è la partecipazione nella creatura ragionevole della legge eterna, sottolineando l’essenziale subordinazione della ragione e della legge umana alla Sapienza di Dio e alla sua Legge (cf. n. 44).
L’enciclica chiarisce gli equivoci causati dall’espressione: legge naturale. Si tratta della natura umana che comporta a titolo essenziale la ragione ed è la ragione che, partendo dalla percezione delle finalità delle inclinazioni inscritte nell’uomo dal Creatore, notifica alla volontà gli imperativi della legge. Non vi è quindi né fisicismo né naturalismo (cf. n. 47-48), ma una fede sostenuta dalla ragione ed una ragione interpellata dalla fede.
Una concezione esatta della legge naturale porta ad affermare la sua universalità e la sua immutabilità, disconosciute dalle teorie che mettono in opposizione la libertà e la natura, oppure la storicità e la cultura. "Questa universalità non prescinde dalla singolarità degli esseri umani, né si oppone all’unicità e all’irrepetibilità di ciascuna persona; al contrario, essa abbraccia in radice ciascuno dei suoi atti liberi, che devono attestare l’universalità del vero bene. Sottomettendosi alla legge comune, i nostri atti edificano la vera comunione delle persone..." (n. 51). L’enciclica ricorda in modo opportuno come l’idea stessa di storicità suppone elementi strutturali permanenti; il riferimento che Gesù ha fatto al "principio", lo attesta. L’uomo si colloca sempre in una cultura particolare, ma non si esaurisce in questa stessa cultura. "Del resto, il progresso stesso delle culture dimostra che nell’uomo esiste qualcosa che trascende le culture" il quale è precisamente la natura dell’uomo, con la quale la cultura è misurata e la dignità della persona affermata (cf. n. 53).

La coscienza morale

Teorie in opposizione alla tradizione del Magistero

Nel proseguimento delle concezioni sopra ricordate del rapporto verità-libertà, si situano le teorie della coscienza morale, teorie che sono in opposizione alla tradizione del Magistero e che conducono ad un’interpretazione "creativa" (cf. n. 54 ss.).
Questa interpretazione è considerata negativa perché rappresenta una reazione alla spiegazione data dai manuali dell’epoca preconciliare che definiscono l’azione della coscienza una applicazione di norme morali generali. Queste norme, secondo le nuove interpretazioni,  non sono considerate in grado di accogliere e di rispettare l’intera irripetibile specificità di ogni singolo atto della persona. La legge non può sostituirsi alla persona nella sua decisione. Anzi, secondo questa teoria, vi sarebbe opposizione tra la legge e la decisione personale. Perciò la coscienza non è più concepita come un’istanza di giudizio, ma come un’istanza di decisione, che sarebbe essa stessa legge. La scelta dovrebbe basarsi su motivi ragionevoli. Riguardo alle norme enunciate dal Magistero, sarebbero valide soltanto in virtù degli argomenti che le sostengono.
Più che criteri oggettivi e vincolanti, queste norme dovrebbero dare una prospettiva generale che aiuta l’uomo nella sua vita personale e sociale. In definitiva è sulla convinzione razionale della validità di queste norme che si dovrebbe decidere. Perciò si ritiene che le posizioni troppo categoriche del Magistero siano di ostacolo alla maturazione morale dell’uomo.
Per altri teologi invece, le norme enunciate dal Magistero avrebbero un valore speculativo. La pratica esigerebbe una considerazione esistenziale più concreta che potrebbe legittimare le eccezioni. Il criterio decisivo sarebbe la coerenza della scelta con un’intenzione buona. Una scelta, contraria ad un atto qualificato come intrinsecamente cattivo dalla legge a livello astratto, potrebbe trovarsi giustificato a livello concreto. È quindi la singola coscienza che deciderebbe del bene e del male. Si instaura così una separazione rovinosa tra la legge e la scelta che ogni singolo uomo deve fare. I motivi sono le cosiddette "pastorali" (cf. n. 55-56).

Teorie secondo la tradizione del Magistero

L’enciclica ricorda le grandi linee della dottrina cristiana sulla coscienza. Questa è testimone per l’uomo della sua fedeltà o infedeltà nei riguardi della legge: essa è l’unico testimone del dialogo intimo dell’uomo con se stesso, di più, del suo dialogo con Dio. Essa è un giudizio pratico, che al termine dei ragionamenti, intima all’uomo che cosa deve fare o non fare, oppure che valuta un atto da lui ormai compiuto.
La legge naturale mette in evidenza le esigenze oggettive del bene morale, la coscienza è l’applicazione della legge al caso particolare; diventa così per l’uomo un dettame interiore, una chiamata a fare il bene hic et nunc in una situazione concreta. È riconoscimento, e non negazione, del carattere universale della legge e dell’obbligo. Essa costituisce la norma prossima della moralità personale.
Bisogna cogliere il vero senso della parola applicazione, che non ha niente di meccanico: è interiorizzazione della legge, la cui forza luminosa è capace d’illuminare l’atto singolare, quale atto della persona.
La coscienza può sbagliare, non è infallibile. Il suo errore può essere invincibile o colpevole secondo i casi. Formare la propria coscienza per renderla atta ad enunciare giudizi veri, è quindi un grave dovere per tutti. Per questa formazione, la Chiesa e il Magistero sono al servizio del popolo di Dio.

L’opzione fondamentale

La riflessione conduce sulle teorie che hanno al centro la "scelta fondamentale". Che una scelta fondamentale, quella della fede "operante mediante la carità" (Gal 5, 6) e dell’obbedienza della fede (cf. Rm 16, 26), qualifica la vita morale e impegna radicalmente la libertà di fronte a Dio, questo è un tema che ha profonde radici bibliche. È quindi felice che la teologia ne rilevi l’importanza.
Ma ciò che si deve rifiutare, è una certa interpretazione della scelta fondamentale che poggia su una concezione sbagliata del rapporto tra persona e atti che conduce a dissociare opzione fondamentale e scelta particolare. Si tratta di una libertà fondamentale mediante la quale la persona decide globalmente di se stessa, non attraverso una scelta precisa, cosciente e consapevole. In questo modo, la distinzione proposta diventa una dissociazione tra due tipi di libertà di scelta, segnando due livelli di moralità. Allorché si attribuisce la distinzione tra il bene e il male alla scelta fondamentale, si qualifica come "giuste" o "sbagliate" le scelte particolari "intramondani". È "in dipendenza da un calcolo tecnico della proporzione tra beni e mali che i comportamenti determinati vengono giudicati come moralmente giusti o sbagliati. Si introduce così una  scissione tra due livelli di moralità.
Alle teorie ricordate, bisogna rispondere che l’opzione fondamentale si attua sempre mediante scelte consapevoli e libere. Perciò, essa è revocata quando l’uomo impegna la sua libertà in scelte consapevoli contrarie, in materia morale grave.
Le teorie citate suppongono un’antropologia dualista, che non rispetta "l’integrità sostanziale o l’unità personale dell’agente morale nel suo corpo e nella sua anima. Un’opzione fondamentale, intesa senza considerare esplicitamente le potenzialità che mette in atto e le determinazioni che la esprimono, non rende giustizia alla finalità razionale immanente all’agire dell’uomo e a ciascuna delle sue scelte deliberate". La moralità degli atti non si evince solo dall’intenzione. "Ogni scelta implica sempre un riferimento della volontà deliberata ai beni e ai mali, indicati dalla legge naturale come beni da perseguire e mali da evitare" (n. 67). In realtà, l’uomo sceglie il Bene assoluto come suo fine ultimo attraverso la scelta di beni determinati, in conformità all’ordine voluto da Dio.

La moralità dell’atto umano

In definitiva è in gioco la natura degli atti umani o morali. Questi sono tali "perché esprimono e decidono della bontà o malizia dell’uomo che compie quegli atti" (n. 70). Si può parlare, senza forzare il senso dei termini, della concezione personalista presente nell’enciclica; questa mette in evidenza l’unità, corpo e anima, dell’agente morale. Quanto alla moralità, essa significa ordinazione razionale e volontaria dell’uomo verso il suo fine ultimo, Dio, vero bene dell’uomo. Questa ordinazione deliberata degli atti a Dio conduce ad affermare il carattere teleologico della legge morale (teleologia: concezione secondo la quale gli eventi, anche quelli non legati all’azione volontaria e consapevole degli uomini, avvengono in funzione di un fine o scopo).
È su questo punto precisamente che un certo numero d’interpretazioni rimettono in causa il senso stesso della moralità, valorizzando in modo esclusivo l’intenzione soggettiva e le circostanze (più precisamente le conseguenze) dell’atto morale a discapito del suo oggetto. Le teorie etiche teleologiche (proporzionalismo, consequenzialismo) sottomettono il soggetto agente, per così dire, a un duplice dovere, creando una distinzione tra ordine morale che riguarderebbe valori propriamente morali, come l’amore di Dio, la benevolenza verso il prossimo, la giustizia, e un ordine premorale in grado di valutare i vantaggi e svantaggi recati dal soggetto ad altre persone. In altri termini, "sulla specificità morale degli atti, ossia sulla loro bontà o malizia, deciderebbe esclusivamente la fedeltà della persona ai valori più alti della carità e della prudenza, senza che questa fedeltà sia necessariamente incompatibile con scelte contrarie a certi precetti morali particolari" (n. 75). Oppure, la bontà morale dell’atto sarebbe valutata a partire dall’intenzione del soggetto riferita ai beni morali, mentre la sua "rettitudine" lo sarebbe "sulla base della considerazione degli effetti o conseguenze prevedibili e della loro proporzione" (ibid). Secondo tale concezione, che proviene da un’antropologia dualista, il soggetto potrebbe decidere valido agire contro una norma universale negativa.
Una tale concezione delle cose non è compatibile con la dottrina della Chiesa, perché crede di poter giustificare, come accettabili, scelte deliberate contrarie ai comandamenti della Legge divina. "Quando l’apostolo Paolo ricapitola nel precetto di amare il prossimo come se stessi il compimento della legge (cf. Rm 13,8-10), non attenua i comandamenti, ma piuttosto li conferma, dal momento che ne rivela le esigenze e la gravità" (n.76).
Nella teologia morale l’oggetto indica il termine della volontà deliberataLa ragione presenta alla volontà alcuni oggetti di scelta come conformi o contrari alla legge morale. Questa illumina sulla compatibilità o incompatibilità dell’oggetto scelto con l’amore di Dio, il fine ultimo. E come la persona realizza la sua perfezione nell’unione con l’amore di Dio con la sua volontà, la scelta libera impegna la persona stessa. "La moralità dell’atto umano dipende anzitutto e fondamentalmente dall’oggetto ragionevolmente scelto dalla volontà libera". Dicendo che l’atto umano dipende dal suo oggetto, si afferma: "se questo è ordinabile o meno a Dio, a Colui che "solo è buono", e così realizza la perfezione della persona, (cf. n. 78). La moralità è quindi una realtà interiore alla persona e non si potrebbe, senza cadere in un dualismo contrario alla natura delle cose, instaurare nell’oggetto stesso una sorta di scissione tra aspetto morale e aspetto "fisico". È l’oggetto, in quanto conforme all’ordine della ragione, causa della bontà della volontà.
L’enciclica non minimizza per tanto l’importanza dell’intenzione e delle conseguenze. Semplicemente, queste non possono eliminare l’oggetto ne metterlo tra parentesi.
Ora si può comprendere la dottrina degli atti intrinsecamente cattivi. Sono, nella loro oggettività, atti "non-ordinabili" a Dio perché contraddicono il bene della persona. L’intenzione non può renderli buoni. Se un’intenzione buona o delle circostanze particolari possono attenuarne la malizia, non possono sopprimerla (cf. n. 81). Le norme che proibiscono tali atti sono valide in ogni circostanza, semper et pro semper. "Come si vede, nella questione della moralità degli atti umani, e in particolare in quella dell’esistenza degli atti intrinsecamente cattivi, si concentra in un certo senso la questione stessa dell’uomo, della sua verità e delle conseguenze morali che ne derivano" (n. 83).
Se l’uomo volesse decidere, in virtù della sua intenzione, della bontà o della malizia dei suoi atti, si metterebbe "al di là del bene e del male", vorrebbe sfuggire alla verità della sua condizione di creatura. Si porrebbe come creatore di valori sulla base della sua intenzione soggettiva e del calcolo, per altro discutibile, delle conseguenze.

Conseguenze pastorali

Il terzo capitolo alla luce di quanto precede ricava importanti conclusioni pastorali.
La formazione della coscienza morale rientra nel grande progetto della nuova evangelizzazione, che deve essere opera di tutta la Chiesa, "popolo profetico". In questo quadro, i teologi moralisti hanno una missione propria.
La formazione della coscienza morale è essenziale per la santità della persona (cf.n. 88-94), è la condizione di una vita sociale degna dell’uomo (cf. n. 95-101).
I cristiani sono invitati a riscoprire "la novità della loro fede e la sua forza di giudizio di fronte alla cultura dominante e invadente" (n.88). La fede possiede un contenuto morale, essa comporta l’accoglienza dei comandamenti divini. Nella vita morale, la fede diventa "confessione", si fa testimonianza (cf. n. 89). È da rilevare il bel riferimento al martirio cristiano, che conferma da solo il carattere inaccettabile  delle teorie etiche che negano l’esistenza di norme morali determinate e valide senza eccezione (cf. n. 90). Ci sono verità e valori morali per i quali si deve essere disposti a dare la vita (cf. n. 94). Peraltro, i cristiani non sono soli a saperlo.
"La fermezza della Chiesa, nel difendere le norme morali universali e immutabili, non ha nulla di mortificante"(n. 96). Di fronte alle leggi morali, senza alcuna eccezione, tutti gli uomini sono uguali. Tali leggi costituiscono una garanzia della dignità dell’uomo e di una giusta convivenza sociale, sia in campo economico che in campo politico.
L’insegnamento della morale si comprende alla luce della misericordia di Dio.
È sempre possibile con l’aiuto della grazia di Dio e i mezzi di santificazione che scaturiscono dal mistero della Redenzione, osservare la legge di Dio. La comprensione per l’umana debolezza non deve compromettere e falsificare la misura del bene e del male (n. 104). Al contrario, accettare la sproporzione tra la legge e la capacità delle sole forze predispone all’accoglienza della grazia (cf. n. 105). Quando, per la dignità e la vera libertà dell’uomo, la Chiesa annuncia la legge morale, il suo sguardo è rivolto a Cristo in Croce. Essa, allora, partecipa alla sua missione nella certezza che la vera libertà è nell’amore che si dona.
L’esempio di Maria Madre di misericordia, citato nella conclusione ricorda "la straordinaria semplicità" della vita cristiana. Essa consiste nel "seguire Cristo, nell’abbandonarsi a lui, nel lasciarsi trasformare dalla sua grazia e rinnovare dalla sua misericordia, che ci raggiungono nella vita di comunione della sua Chiesa" (n. 119).

Conclusione

Per avere una giusta concezione dell’agire morale, bisogna considerare la verità dell’uomo. Questa è contenuta nella dottrina dell’"immagine di Dio": "La vera libertà dell’uomo segno altissimo dell’immagine divina. Dio volle, infatti, lasciare l’uomo "in mano al suo consiglio" Cf. Sir 15, 14), così che esso cerchi spontaneamente il suo Creatore, e giunga liberamente, con la adesione a lui, alla piena e beata perfezione" (Gaudium et spes, n. 11).
Infatti la conoscenza di se come immagine di Dio è il fondamento dei giudizi morali.
Noi camminiamo verso Dio, nostro fine ultimo, attraverso la mediazione di atti singolari che riguardano dei beni particolari che per se stessi sono capaci o non di essere ordinati all’amore di Dio. Ma ci sono degli atti (atti intrinsecamente cattivi) che per se stessi sono contrari all’amore di Dio. Veritatis splendor, n. 83, può quindi affermare, come abbiamo detto, che nella questione della moralità nell’"esistenza degli atti intrinsecamente cattivi, si concentra in un certo senso la questione stessa dell’uomo, della sua verità e delle conseguenze morali che ne derivano (...)".          

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