Introduzione ai sofisti
Tutta
la filosofia greca è come una scacchiera nella quale verranno giocati tutti i
possibili giochi del pensiero occidentale, apre cioè un orizzonte in cui poi
tutte le idee della nostra cultura occidentale si sono mosse.
I
sofisti infatti sono attualissimi. Tutto il pensiero filosofico dei sofisti è
la filosofia imperante oggi. Tutti i precedenti filosofi, non sono poi più
stati chiamati presofisti, ma presocratici perché Platone e Aristotele
bollarono i sofisti come ignobili mercenari del sapere (si facevano pagare le
loro lezioni) e quindi indegni di chiamarsi filosofi anche perché non
perseguivano la verità del mondo, di Dio e dell’uomo, anzi questo lo
consideravano un inganno. Per questo Socrate, Platone e Aristotele combatterono
strenuamente i sofisti e chi oggi combatte i loro pronipoti a loro si appoggia.
Essi infatti hanno originato una vera e propria demonizzazione del sofismo, e
non senza ragione, come vedremo poi. Il termine sofista comunque ha ancora oggi
una accezione negativa e viene spesso attribuita ai politici che parlano tanto
e concludono poco.
I
sofisti vivono nel V secolo e sostanzialmente cambia anche il teatro
geografico, non solo quello concettuale, perché tutti i pensatori che abbiamo
trattato fino ad ora facevano parte delle colonie greche, qui invece siamo
proprio ad Atene, nella grande città di Atene. Sofisti erano quelli che del
loro sapere facevano una professione insegnandola dietro compenso, cosa che
faceva inorridire, Socrate, Platone e Aristotele. Questi demonizzarono
culturalmente i sofisti, definendolo “falsi sapienti”, “negozianti di merce
spirituale” interessati più al successo e ai soldi più che alla verità e quindi
non veri filosofi.
La
critica filosofica moderna li ha invece molto rivalutati e li rilegge non più
con quell’accezione negativa che i pilastri della filosofia greca avevano loro
assegnato. Infatti il relativismo culturale che i sofisti proponevano e
propongono è l’aria che respiriamo a pieni polmoni anche oggi. Se c’è una
filosofia che ormai è entrata nella nostra cultura, che investe i discorsi
quotidiani, i “talk televisivi”, i testi scolastici, gli incontri culturali, è
proprio la cultura che affonda le sue radici nei sofisti, anche se il termine
sofista preso a sé dice ancora oggi qualcosa di poco chiaro e comunque di
negativo.
I Sofisti
Sofisti, ovvero sapienti,
vennero chiamati quei filosofi del V e
IV secolo a.C. che cominciarono a dare
lezioni di filosofia a pagamento, facendo della filosofia una professione. Con
i sofisti la filosofia greca si apre definitivamente al grande pubblico,
precedentemente era stata disciplina più che altro elitaria, chiusa ed
esoterica, destinata in prevalenza dai maestri ai soli allievi. I sofisti
trovarono in Atene terreno fertile per il loro insegnamento, grazie ad una
situazione favorevole di questa città:
1. Benessere
e tranquillità dopo la vittoria contro i Persiani e l’avvento al potere di
Pericle
2. Crisi
dell’Aristocrazia e accresciuta potenza della borghesia cittadina
3. Espansione
dei traffici e dei commerci con i paesi mediterranei fino allora prerogativa
solo delle colonie (Turchia e Magna Grecia, ma non ancora di Atene)
4.
Avvento della Democrazia, con nuovi parametri di giudizio.
Fu così che per questa caratteristica non più disinteressata
ma legata all'esercizio di una professione (e quindi esercitata sotto
pagamento), sofista divenne termine spregiativo per indicare, argomenti
cavillosi e speciosi, ma anche un atteggiamento mercenario (pagato) del
sapiente per dimostrare razionalmente la tesi del committente, in spregio a
qualsiasi idea di verità. "Il 'sofista' è appunto colui nel quale la sophìa,
rinuncia ad essere verità, è divenuta la capacità
tecnica di persuadere conformemente a dei fini." (E. Severino, La
filosofia antica).
Sebbene non fosse riconducibile ad una scuola precisa ma
solamente a un atteggiamento generale, la sofistica si può distinguere per i
seguenti punti:
1.
Il relativismo,
per cui la
conoscenza si riduce all'opinione e il bene all'utilità. La verità e i valori morali non sono più certezze, ma si
ammette che verità e valori possano
mutare a seconda dei luoghi e dei tempi (atteggiamento sposato in pieno dal
sentire comune fino ai nostri giorni);
2.
Il concentrarsi sull’uomo
piuttosto che su questioni
teoretiche legate alla ricerca del principio e della giustificazione del mondo
e alla ricerca di ciò che trascende l’uomo; questi primi due punti sono
riconducibili in special modo a Protagora e Gorgia, mentre per la seconda fase
del sofismo si possono distinguere altri due punti centrali:
3.
L'eristica,
abilità dei politici ovvero l'abilità
di sostenere e confutare nello stesso tempo argomenti tra loro contraddittori; utilizzata
poi a piene mani dai politici di tutte le epoche;
4.
la legge del più forte,
il riconoscimento
che in natura vige la legge del più
forte, cioè che esiste una
contrapposizione tra la natura e la legge, tra la Verità e quello che decide la
maggioranza o chi ha il potere. Nasce qui il “mito” dell’uomo fatto da sé,
dell’uomo di successo, della ricchezza come dimostrazione della propria abilità
e intelligenza a piegare in proprio favore le risorse umane ed economiche. Ricchezza = Potere sugli altri.
Dunque, centrale è il tema del relativismo, ovvero la
consapevolezza che la realtà è filtrata e interpretata da ogni uomo in modo
diverso. Nel sofismo l'argomento
polemico dell'impossibilità della verità deriva dalla constatazione che ogni
conoscenza è frutto di una contrapposizione tra tesi contrarie, e che tali
tesi, ognuna sostenuta dalle diverse scuole di pensiero, impongono le proprie
conclusioni sulle altre (come verità). Tali dissidi insanabili portano i
sofisti a dichiarare l'impossibilità da parte della conoscenza umana di
raggiungere la certezza e la verità universale (la verità è l'opinione, è impossibile conoscere la verità
universale).
Col tempo tale atteggiamento divenne quasi una forma di estetismo
della ragione, per cui la logica non
era più al servizio della verità ma al servizio della confutazione e della
dimostrazioni di tesi ad hoc, attraverso l'uso della retorica come
strumento tecnico codificato. Molti sofisti, infatti, soprattutto nella seconda
fase del movimento, organizzavano regolarmente vere e proprie esibizioni
pubbliche in cui davano sfoggio delle loro abilità retorica: lo spettacolo
preferito erano le antinomie, ovvero la contemporanea dimostrazione di una tesi
e del suo contrario.
Alla
luce di tutto ciò, alcuni studiosi hanno voluto vedere nel movimento sofistico
una sorta di “illuminismo greco” ante litteram: in altre parole la
Sofistica avrebbe in un certo senso anticipato alcuni motivi tipici di quel
movimento culturale sviluppatosi in Europa nel XVIII secolo, l'Illuminismo appunto.
La retorica: i sofisti non furono degli scienziati, poiché non
limitavano il campo del loro sapere ad una disciplina specifica; piuttosto, per
loro era importante il metodo di comunicazione, e
per apprenderlo erano previsti due momenti, la dialettica (l'arte di saper argomentare) e l'eristica: (l’arte di saper vincere in una discussione). Il loro
insegnamento abbracciava molte tematiche, e oltre alla morale si occuparono di
problemi di diritto, ponendo la questione dell'esistenza o meno del diritto naturale (phýsis) e del suo rapporto col diritto positivo (nomos).
Per quanto riguarda le leggi e le norme i sofisti,
spostandosi di città in città, si accorsero che ogni cultura ha diverse regole
e leggi. Ciò fece sorgere in loro domande quali:
Ci sono regole uguali per tutti?
Vi è una cultura superiore alle altre?
Porre la domanda già equivale ad una critica delle tradizioni
e ad una propensione per il relativismo culturale.
Il valore
del conoscere è messo in discussione dai sofisti che affermano:
1. l’antinomia fra ragione ed esperienza porta in primo piano la
domanda sulla capacità dell’uomo di conoscere la verità.
2. Il pensiero filosofico concentra la sua attenzione sull’uomo
che conosce e sul valore della sua conoscenza.
3. Può l’uomo raggiungere un sapere necessario e
incontrovertibile se nel segno stesso della verità si è acceso un dissidio
radicale fra ciò che la presunta verità dice alla ragione e ciò che la presunta
verità dice ai sensi?
I sofisti
quindi mettono in discussione il valore del conoscere. Essi riflettono sul
fatto che i filosofi che abbiamo affrontato fino ad ora di fatto hanno detto
tutto e il contrario di tutto. Chi dice che l’essere è unico e immobile, chi
invece dice che tutto diviene, chi dice che esistono gli atomi, chi le quattro
radici, ecc., e quindi in qualche modo non si è giunti di fatto a nulla, a
nulla di incontrovertibile come voleva essere il sapere filosofico. Allora i
sofisti dicono che c’è un problema di fondo, l’uomo non può conoscere l’essere,
non può conoscere una realtà oggettiva. Abbiamo visto che la verità è
contraddittoria con se stessa perché la ragione ci dice una cosa e i sensi
invece un’altra. Quindi quella verità che si mostra Alètheia, non nascosta, in realtà è contraddittoria in se stessa.
Allora significa che la verità non esiste o se esiste l’uomo non è capace di
conoscerla.
Infatti
il pensiero filosofico ora concentra la sua attenzione sull’uomo che conosce e
sul valore della sua conoscenza. Ma può l’uomo, si chiedono questi filosofi,
raggiungere un sapere necessario e incontrovertibile se nel seno stesso della
verità si è acceso un dissidio radicale fra ciò che la verità dice alla ragione
e ciò che la verità dice ai sensi? Il dissidio, dicono allora i sofisti, è
nelle cose stesse e nella conoscenza che l’uomo ne ha.
Gli
ordinamenti sociali con l’avvento della democrazia non sono più considerati
divini, ma frutto di una convenzione fra uomini. Esiste allora un criterio o un
referente oggettivo della conoscenza o comunque esiste una valida possibilità
di raggiungere il vero? Tutte le cose sono in una essenziale opposizione come
ci hanno descritto i grandi filosofi come Eraclìto, Anassagora, Democrito.
“il
principio che tutte le cose vivano in una essenziale opposizione o
contraddizione, era stato potentemente affermato da Eraclìto: la contesa,
Polemos il padre di tutte le cose. Era inevitabile che fosse inteso come
l’affermazione dell’esistenza dei contrari in ogni cosa. È lo stesso principio
che esclude la generazione dell’essere dal non essere che portava Anassagora ad
affermare che nello stesso ente coesistono i contrari. Democrito stesso
affermando che il non essere è perché la verità è che ci sono gli atomi e il
vuoto (quindi il non essere esiste). Grande dissidio dunque nelle cose stesse.
Morale non può esistere una verità assoluta e incontrovertibile. La conoscenza
della realtà non può diventare verità. Quindi abbandono totale della
possibilità dell’uomo di raggiungere la verità.
PROTAGORA (Abdera 491-? a.C.)
L'opera principale di Protagora si
intitola Antilogie, ovvero "discorsi antitetici", dove ad ogni
argomento corrisponde il suo contrario, in modo da dimostrare come la verità
sia impossibile da raggiungere proprio nell'ambito della ragione stessa (la
ragione ha in sé l'errore, per cui è
impossibile dimostrare qualsiasi verità razionalmente).
L'uomo è misura di
tutte le cose.
Non esiste altro criterio per stabilire
la verità se non l'esperienza stessa che si pone di fronte in modo diverso a
uomini diversi. Solo ciò che i sensi percepiscono è reale, ciò che non
percepiscono non esiste. L'uomo è misura di tutte le cose.
Ciò che viene
percepito dall'uomo è il solo criterio per giudicare la realtà (e la verità). Da ciò deriva che non
esiste una sola verità, perché lo stesso fenomeno percepito in un certo modo da
un uomo, può essere percepito diversamente da un altro, in tal caso entrambi i
giudizi costituiscono verità (ad esempio, se un uomo percepisce l'acqua di un
fiume come calda, mentre allo stesso tempo e nello stesso luogo un altro uomo
la percepisce fredda, entrambi gli uomini hanno ragione).
Il compito del
filosofo.
Se ogni uomo raggiunge la verità con i propri mezzi (seguendo le proprie
percezioni), compito del filosofo non è
più la ricerca della verità assoluta, (perchè
la verità assoluta non esiste), ma quella di aiutare le persone a
migliorare l'esposizione delle proprie idee e i propri giudizi, così da predisporli
verso un sapere più ampio. Compito della filosofia elevare l’uomo a civiltà
superiori in senso utilitarista.
Questo fa passare l’interesse dalla phýsis all’Uomo. Non c’è più
il pensiero e la preoccupazione di come la realtà è veramente fatta e quindi da
rispettare. C’è solo l’uomo che, ciascuno a modo suo, percepisce la realtà e
quello che percepisce è il suo criterio di giudizio. Se sento caldo vuol dire
che è caldo (caldo è la mia verità), se sento freddo vuol dire che è freddo
(freddo è la mia verità). Non c’è una realtà oggettiva delle cose, la verità è
relativa all’uomo (ognuno la vede come meglio crede), siamo in pieno
Relativismo.
Si afferma quindi una
forma di “umanesimo” (l’uomo è al centro di tutto), di “fenomenismo” (la realtà
è come appare a noi, non possiamo conoscerla in se stessa) e di “relativismo”: non
esiste l’assoluto, la realtà è relativa, la realtà è qualcosa di appeso che non
sa dove appoggiarsi.
Protagora afferma che
esiste un “principio di scelta” che egli identifica con l’Utile. Nel vuoto di verità
“forti” abbiamo verità “deboli”, quelle dell’utilità privata e
pubblica delle credenze. Alla concezione oggettivistica e assolutistica della
verità, Protagora sostituisce una concezione umanistico-storicistica (ciò che
si è dimostrato storicamente e socialmente utile). Nasce qui il concetto di “pensiero forte” che si appoggia su di
un Assoluto (che per i sofisti non esiste) e il concetto di “pensiero debole” che si appoggia sull’opinione
variabile di ogni singolo uomo.
Gorgia era in grado di confutare qualsiasi tesi a richiesta,
spesso nemmeno lui si curava troppo di credere in ciò che sosteneva, ma questo
non era importante visto che, da buon sofista, predicava una verità diversa
per ogni diversa situazione. Scopo della sua filosofia, non la ricerca del
vero assoluto, ma la scelta delle parole più utili che gli garantissero di prevalere
nello scontro dialettico.
Gorgia diede prova di grande perizia dialettica sul tema
parmenideo dell'essere e del non-essere, dimostrando che:
1.
Nulla esiste;
2. Se anche qualcosa esistesse, non potrebbe essere comprensibile all'uomo;
3. Se anche qualcosa fosse comprensibile, sarebbe incomunicabile.
2. Se anche qualcosa esistesse, non potrebbe essere comprensibile all'uomo;
3. Se anche qualcosa fosse comprensibile, sarebbe incomunicabile.
1. Che “nulla esiste” è dimostrabile nel fatto che se
esistesse qualcosa sarebbe o l'essere o il non-essere, oppure entrambi.
Escludendo il non-essere, che non è, si passa all'analisi dell'essere. Esso sarebbe
infinito o generato. Se fosse infinito allora non è in alcun luogo preciso e
quindi non esiste. Se fosse generato allora lo sarebbe dal non-essere, e non
potrebbe, o sarebbe generato dall'essere. Ma l'essere lo è già e non può
generare. Quindi nulla è.
2. La seconda tesi è dimostrabile in questo modo: se non
possiamo dire che le cose pensate esistono, non potremmo neanche dire che si
può pensare l'essere, e se l'essere non è pensabile allora non è nemmeno
comprensibile.
3. La terza tesi è spiegabile tenendo presente che l'uomo
comunica solo attraverso i sensi, più precisamente trasmette l'idea di un
oggetto con la parola. Ma la parola non può trasmettere l'oggetto stesso,
essendo la parola solamente un simbolo. Ciò che non è espresso non può essere realtà.
La difesa di Elena. Altro argomento che diede fama a Gorgia fu
la difesa di Elena, ritenuta colpevole di aver scatenato la guerra di Troia. Ne
L'encomio di Elena, Gorgia sostiene che essa fu convinta a tradire il
marito Menelao dalle affabulazioni verbali di Paride: ella non aveva quindi
proprie colpe specifiche che ne danneggiassero la virtù.
In sostanza, Gorgia riconosceva alla parola il potere di
ipnotizzare l'interlocutore fino a fargli perdere la ragione. La difesa di
Elena può considerarsi, storicamente, un omaggio alla parola come edificatrice
di verità, omaggio che non poteva non provenire da un sofista doc quale
era Gorgia.
“Capacità di prevalere nelle discussioni” è
quello che si insegnava e per la qual cosa si esigeva un compenso perché chi
meglio parla vince. Questo infatti è lo strumento indispensabile in democrazia
per portare avanti le proprie idee o per negare le idee degli altri. La
democrazia quindi decide cosa è vero e cosa è falso in funzione di quello che
la retorica e l’eristica di una
maggioranza sentenzia contro quella di una minoranza. (Principio di utilità, ma per chi gestisce il potere).
L'etica: Eracle al bivio.
L'etica ricoprì un ruolo importante nel suo pensiero. Questa sua
attenzione alla sfera della morale e dell'etica mette infatti in crisi il
pregiudizio che vede i sofisti come individui spregiudicati e avidi, strenui
sostenitori del relativismo etico.
La favola di Eracle al
bivio,
contenuta nell'opera più famosa di Pròdico: “Stagioni” giustifica
questa opinione.
“Eracle (Ercole), divenuto adolescente e giunto
quindi all'età in cui deve scegliere cosa fare della propria vita, se essere
virtuosi o votarsi al vizio, incontra ad un bivio due donne, personificazioni
della Virtù (Areté) e del Vizio (Kakía). Entrambe tengono un discorso
al giovane, per indurlo a scegliere una delle due.
La scelta di Eracle
di seguire poi la Virtù è
un'immagine del passaggio dell'uomo dalla sua natura originaria (phýsis) alla virtù «divina» (nomos), acquisibile per mezzo dell'educazione.
Concetto
del Progresso
Pròdico guardò
alla realtà del mondo con lo sguardo dell'uomo comune, ma per primo, ebbe
consapevolezza della necessità di scrivere una storia in chiave antropologica
(studio dell’uomo sotto tutti i punti di vista). Fu uno dei primi pensatori a
delineare il concetto di progresso,
se non di "evoluzione", ed
a tentare di chiarire i processi secondo i quali l'uomo, creatura
originariamente fatta con il fango, fosse diventato in un certo senso signore
della natura.
La religione
(L'evemerismo
è una posizione della filosofia della religione asserita da Evemero, storico e filosofo
di età ellenistica, che sostiene che gli dei rappresentino soggetti umani
divinizzati).
Già il suo maestro Protagora era stato accusato di empietà, avendo
assunto una posizione agnostica
sugli dei, sostenendo che di questi non si può sapere niente, né se esistano né
se non esistano. Pròdico invece spiegava la religione popolare sulla base della
divinizzazione prima delle cose utili all'uomo e poi dei loro scopritori. Sosteneva cioè che sono stati
divinizzati dapprima il sole, la luna, i fiumi, e in seguito sono nate divinità come
Demetra (il pane), Dioniso (il vino) ed Efesto (il fuoco e le sue potenzialità tecniche). In
questo modo, a quanto affermano le testimonianze, Pròdico ricollegava anche i riti
misterici ai frutti dell'agricoltura.
Il linguaggio
Tuttavia, la fama di Pròdico è dovuta soprattutto alla sua dottrina
della sinonimica o dell'esatto
significato dei nomi: tale dottrina consiste essenzialmente nell'analisi
semantica dei termini sinonimi e nella determinazione del loro significato
preciso e univoco. Sotto questa luce Pròdico può essere considerato piuttosto
come il predecessore della moderna filosofia analitica del linguaggio.
Principi fondanti della Democrazia ateniese nel V secolo a.C.
Per immaginare quale poteva essere la visione del
futuro ed il progetto civico della cultura dominante ad Atene nel quinto secolo
avanti Cristo, riportiamo, come testimonianza, il testo del discorso tenuto da
Pericle agli ateniesi nel 461 a.C., che contiene in sintesi i concetti che
stanno alla base della democrazia ateniese di quel periodo
Qui ad Atene noi facciamo così.
Qui il nostro governo favorisce i molti invece dei
pochi: e per questo viene chiamato democrazia.
Qui ad Atene noi facciamo così.
Le leggi qui assicurano una giustizia eguale per
tutti nelle loro dispute private, ma noi non ignoriamo mai i meriti
dell'eccellenza.
Quando un cittadino si distingue, allora esso
sarà, a preferenza di altri, chiamato a servire lo Stato, ma non come un atto
di privilegio, come una ricompensa al merito, e la povertà non costituisce un impedimento
Qui ad Atene noi facciamo così.
La libertà di cui godiamo si estende anche alla
vita quotidiana; noi non siamo sospettosi l'uno dell'altro e non infastidiamo
mai il nostro prossimo se al nostro prossimo piace vivere a modo suo.
Noi siamo liberi, liberi di vivere proprio come ci
piace e tuttavia siamo sempre pronti a fronteggiare qualsiasi pericolo.
Un cittadino ateniese non trascura i pubblici
affari quando attende alle proprie faccende private, ma soprattutto non si
occupa dei pubblici affari per risolvere le sue questioni private.
Qui ad Atene noi facciamo così.
Ci è stato insegnato di rispettare i magistrati, e
ci è stato insegnato anche di rispettare le leggi e di non dimenticare mai che
dobbiamo proteggere coloro che ricevono offesa.
E ci è stato anche insegnato di rispettare quelle
leggi non scritte che risiedono nell'universale sentimento di ciò che è giusto
e di ciò che è buon senso.
Qui ad Atene noi facciamo così.
Qui ad Atene noi facciamo così.
Un uomo che non si interessa allo Stato noi non lo
consideriamo innocuo, ma inutile; e benché in pochi siano in grado di dare vita
ad una politica, beh tutti qui ad Atene siamo in grado di giudicarla.
Noi non consideriamo la discussione come un
ostacolo sulla via della democrazia.
Noi crediamo che la felicità sia il frutto della
libertà, ma la libertà sia solo il frutto del valore.
Insomma, io proclamo che Atene è la scuola
dell'Ellade e che ogni ateniese cresce sviluppando in sé una felice
versatilità, la fiducia in se stesso, la prontezza a fronteggiare qualsiasi
situazione ed è per questo che la nostra città è aperta al mondo e noi non
cacciamo mai uno straniero.
Qui ad Atene noi facciamo così.
Riflessioni (di don Claudio Crescimanno)
I
sofisti sono l’espressione della diffidenza, del disinteresse e
dell’indifferenza dell’uomo di fronte al bisogno di verità che è insito
nell’uomo e che i primi filosofi si “scervellarono” per tentare di risolverlo
proprio con l’arma del ragionamento che li liberava dalla soggezione di più o
meno fantastiche spiegazioni mitologiche che non soddisfacevano più.
Quelli
che abbiamo poi chiamato “i presocratici” in altre parole si domandavano:
·
Cos’è la realtà?
·
Come è fatta la realtà
·
Che senso ha la
realtà?
·
Quali sono i principi che
la governano?
·
Perché l’esistenza?
·
Cosa è e Cosa non è?
·
Cos’è l’Essere, il
vero e il falso?
·
Perché più si analizza
la realtà più si scoprono concetti contradditori?
·
La realtà è una,
stabile e immobile, o è in movimento, sempre diveniente, molteplice, variegata,
diveniente, ecc.
·
Come possiamo fare per
raggiungere allora la verità?
Dovremo
avere la pazienza di aspettare che da filosofo a filosofo, da scuola di
pensiero a scuola di pensiero, da ragionamento a ragionamento ci si avvicini
sempre di più alla Verità, anche a costo di non raggiungerla mai pienamente.
Certo staremo fermi nell’ignoranza della Verità se pensassimo che l’ultimo e
definitivo capitolo fosse quello del relativismo. Saremmo così autorizzati a
non pensarci più. Mi par di vedere la volpe che non riuscendo a raggiungere
l’uva si giustifica dichiarando che in fin dei conti non è ancora matura, cioè
non ne vale la pena far fatica per raggiungerla.
Vedremo
che l’uomo di generazione in generazione e con tanta pazienza riuscirà a capire
che è di fatto immerso in una realtà, molto più grande di lui, cioè che supera
i suoi limiti, ma non per questo non esiste.
I
sofisti però non accettano questo, hanno fretta di arrivare ad una definizione
finale che tolga anche la speranza di trovarla la verità. Definendo che la
verità assoluta non esiste si sono tolta la preoccupazione di cercarla e
capirla.
La
realtà invece non può essere compresa dall’uomo perché comprende si l’uomo, ma
non è a misura dell’uomo (cioè misurabile e completamente capibile dall’uomo).
La realtà ha bisogno di essere esplorata e compresa poco alla volta, a piccoli
passi spalmati nel tempo. Ogni piccolo passo è conseguenza dello sforzo del
passo precedente. Ciascun filosofo, ma anche ciascun uomo, è un piccolo
tassello di questo percorso verso la verità, quasi fosse un piano di studi o di
ricerca che dura tutta la nostra vita.
Il
sofismo, nella storia del pensiero, è
un disagio che mette in difficoltà il rapporto fra l’uomo e la realtà e genera
una vera e propria malattia che apre la porta a quella che è dapprima creduta
una medicina, ma che diventerà in poco tempo un veleno sottile e dilagante: l’ideologia.
2.000 anni dopo Protagora e Gorgia, Jean-Jacques
Rousseau (1712 –1778)
ebbe influenze importanti nel confezionare un’ideologia,
egualitaria e anti-assolutistica, che poi divenne la base della Rivoluzione francese del 1789 e
degli enormi danni che ne seguirono, massacri di civili e soldati per tutta
l’Europa, guerre dal “Manzanarre al Reno”, sconvolgimenti sociali, morali e
religiosi, sopraffazioni, sequestri, requisizioni di beni, olocausti, ecc. Cose
che puntualmente si ripeterono per le altre ideologie dell’’800 e del ‘900.
Questa
aberrazione dell’uomo pensante nei confronti della realtà, questo abbandono
della ricerca rigorosa delle Verità fece arrabbiare molto i filosofi che
seguirono, ma da Rousseau in poi è diventata quasi
una religione universale: “non è vero quello che la realtà ci mostra, è vero
quello che la mia percezione mi dice essere vero, almeno in questo momento e in
questa situazione”.
La
fisiologia dei sofisti è in realtà un problema nosologico (da nosologia:
nosos, "malattia" e logos, "parola" o
"discorso". È la scienza che si occupa della classificazione
sistematica delle malattie), una malattia della Conoscenza
quindi. Lo sguardo non è più concentrato sulle cose, sulla realtà, sulla phýsis, sull’insieme delle cose, sul mondo che ci circonda e di cui
noi stessi siamo parte, ma è concentrato sull’uomo centro di tutto e
protagonista unico del tutto. Tutto quindi dipende dallo strumento
“intelligenza” dell’uomo, non dallo strumento della “ragione” dell’uomo che
indaga e si immerge nella realtà, ma dall’intelligenza del singolo e dalla sua
capacità di comunicarlo.
Ciò
che vede, ciò che capisce, ciò che a lui sembra, ciò che lo convince, la sua
opinione (relativa al suo pensare). Questo pensiero è oggi, come ieri,
battezzato “Pensiero debole”, in antitesi con il “Pensiero forte” di chi ha
saldi punti di riferimento nella sua ricerca dell’essere e della realtà.
Se
ognuno di noi percepisce la realtà riferendosi solo a se stesso, vuol dire che
il mondo è come sembra a me, per cui ognuno di noi ha il suo mondo nel quale si
muove liberamente. Si, ma cosa succede quando il mio mondo entra in collisione
con quello di un altro? Dobbiamo ammettere che il nostro mondo fa parte di un
insieme di mondi che pur muovendosi ciascuno autonomamente si possano incontrare
o scontrare? Qui entra in ballo la nostra capacità di convincimento, per
convincere l’altro e gli altri che il mio mondo è il migliore per cui vale la
pena di accettare la mia verità e … che vinca il migliore! Abbiamo inventato la
Democrazia. L’idea meglio espressa viene così adottata e guai a chi vi si
oppone, altrimenti non ne veniamo più a capo.
Lo Stato Etico
Ma
chi si fa carico dell’adozione e realizzazione di quanto deciso dalla
maggioranza e della gestione di chi non ci sta, la minoranza? Risposta: è lo
Stato, ovviamente guidato dai vincitori. Lo Stato quindi come elemento
unificatore al posto della verità. Si chiamerà Stato etico perché deve decidere per tutti i membri della sua
collettività, ciò che è bene, ciò che è male, ciò che è vero, ciò che è falso,
ciò che è applicabile e ciò che non lo è, ecc. il Relativismo dei singoli individui
produce lo Stato etico e quindi la dittatura culturale del relativismo e di chi
è chiamato a dirigerlo e che è quello (o quelli) che è stato più convincente di
altri per ottenere questa autorità e questo potere.
Da
questi ragionamenti nasce non solo la Dittatura del Relativismo, ma anche la
Dittatura di Capi di Stato, ovviamente per il bene di tutti, perché non si può
andare avanti con continue discussioni fra rappresentati della miriade di mondi
di ciascuno raggruppati in una miriade di partiti.
La
Storia, sempre poco ascoltata, ci rammenta che le ideologie che si sono
succedute e che hanno prodotto rivoluzioni come quella francese, tanto osannata
ma anche tanto crudele e ingiusta, ha poi provocato come una reazione a catena
altre rivoluzioni, altrettanto crudeli e disumane, che hanno a loro volta
trasformato lo Stato etico in una Dittatura. Nella Dittatura è vero solo ciò
che il leader politico o militare decide essere vero, tutti gli altri debbono
sottostare pena la condanna a morte, alla prigionia nei lager, il confino e
comunque alla vergogna di non pensarla come il Salvatore delle patria del
momento.
Tanto
per non fare dei nomi: Napoleone, Mussolini, Hitler, Lenin, Stalin, Mao, ecc. e
le rispettive ideologie che anche se apparentemente morte subiscono improvvisi
risvegli o riappaiono camuffate da partiti con nomi nuovi o mutazioni di
adattamento. Lo slogan potrebbe essere “non è bello quel che è bello, ma è
bello quel che piace” oppure “ ‘u scarafone è bello a mamma sua”. Che comunque
è un’ottima modalità per imporre il Potere di chi ce l’ha a chi non ce l’ha e
squalificare idee contrarie.
L’esperienza
della dittatura ha poi portato l’uomo a definire un metodo per evitarla. Decidere
cioè insieme qual é la verità alla quale fare riferimento, almeno per un certo
periodo per poter sopravvivere alla miriade di realtà proponibili e gestire in
qualche modo le comunità umane, mettendo dei paletti, le leggi, a cui tutti
dovranno obbedire almeno finché non saranno rimesse in discussione. Ma con
quale criterio? Con quello della Democrazia, si votano i propri rappresentanti
e quello che propone la maggioranza di essi diventa legge o guida per tutti e
chi si oppone va contro la legge e subirà delle sanzioni.
Così
si stabilisce che l’omicidio è reato, ma poi in un momento successivo si
stabilisce, sempre con il criterio della maggioranza, che l’uccisione di un
uomo in formazione nel seno della madre non è da definirsi uomo per cui può
essere eliminato o scartato (proibito dire ucciso, altrimenti si dovrebbe
ammettere che è già un essere vivente). Tanto la verità assoluta non esiste e
possiamo inventarcela come vogliamo a seconda del bisogno o della necessità (o
dell’utilità di chi comanda).
Possiamo
partire da una operazione apparentemente innocua come quella di cambiare, “cieco” in “non vedente”, “paraplegico”
in “diversamente abile”, “spazzino” in “operatore ecologico”, “prostituta” in “professionista
del piacere”, ecc. fino a chiamare “eutanasia” l’eliminazione di un anziano che
crea problemi o “suicidio assistito” o la decisione che è meglio per lui e per
tutti che gli venga tolta la vita non più degna di essere vissuta.
È definita “maternità e paternità responsabile” eliminare un bambino indesiderato o probabilmente difettoso e farlo quando è così piccolo da fare meno impressione, o quando si crede che soffra poco. È chiamata “educazione sessuale” l’apprendimento di tecniche (contraccettive e abortive) per evitare il concepimento quando capita di praticare “l’amore libero” a qualunque età e con chiunque, ed è spacciata come grande passo in avanti di civiltà (come mettere nelle scuole macchinette per la distribuzione di contraccettivi, possibilmente gratuiti e a carico della comunità).
Nessun
riferimento ovviamente alle logiche del rapporto affettivo e dell’Amore. “Diritto
civile” cambiare moglie o marito e sacrificare al proprio egoismo una corretta
educazione dei figli che invece hanno un feroce bisogno di essere amati e di
vedere che i propri genitori si amano. “Conquista civile” legalizzare forme
indiscriminate di libertà, ecc. per non parlare del fatto che ogni problema o
evento negativo è per definizione colpa di qualcuno.
Si
cerca sì il modo di rimediare, ma essenzialmente si cerca chi è stato
direttamente o indirettamente causa di quel male. Ci deve sempre essere
qualcuno che non ha rispettato le sacrosante regole o leggi dello Stato etico.
Non esiste il vero assoluto, è vero solo quello che è stato stabilito essere
vero. Quindi non esiste una legge sbagliata o un evento fortuito o un evento
impossibile da prevedere, ma esiste chi ha sbagliato. Arriva uno “tzunami” o un
terremoto che distrugge una intera città? È colpa dell’ente preposto a
prevederlo e dei suoi uomini. Cade un aereo durante una tempesta? È colpa di
chi ha dato il permesso al volo e di chi ha progettato l’aereo non in grado di
sopportare una tempesta. Muore un uomo in sala operatoria è sicuramente colpa
del chirurgo, ecc. per fortuna non è sempre così, ma chi sta davanti al
televisore in genere percepisce proprio questo.
Qui
l’affermazione che “i figli delle tenebre sono più furbi dei figli della luce”
ci porta ad aggiungere un’altra considerazione.
L’ideologia
può anche essere vista come lo strumento principe del principe di questo mondo,
detto anche principe delle tenebre, perché fa di tutto per tenere l’uomo
all’oscuro della Verità. Il termine "diavolo" deriva dal greco diábolos,
("dividere", "colui che divide", "calunniatore",
"accusatore"); Il significato in ebraico sarebbe
"avversario", "colui che si oppone", "accusatore in
giudizio", "contraddittore”. Un altro significato interessante,
legato a quello di calunniatore, è quello di “seduttore” che con la menzogna
inganna e produce profonde fratture tra l’uomo e la Verità (Genesi). Avrà
Satana, visto il successo della sua arte seduttiva con Adamo ed Eva, messo il
suo zampino anche nel V secolo a.C., quando
si è accorto che gli uomini si davano troppo da fare per conoscere la Verità?
Concludiamo con uno
stralcio dell’ Omelia del Cardinale
Joseph Ratzinger alla MISSA PRO ELIGENDO
ROMANO PONTIFICE del Lunedì 18 aprile 2005 nella Basilica di San
Pietro.
… soffermiamoci solo su due punti. Il primo è il cammino
verso “la maturità di Cristo”; così dice, un po’ semplificando, il testo
italiano.
Più precisamente dovremmo, secondo il testo greco, parlare
della “misura della pienezza di Cristo”, cui siamo chiamati ad arrivare per
essere realmente adulti nella fede. Non dovremmo rimanere fanciulli nella fede,
in stato di minorità. E in che cosa consiste l’essere fanciulli nella fede?
Risponde San Paolo: significa essere “sballottati dalle onde e portati qua e là
da qualsiasi vento di dottrina…” (Ef 4, 14). Una descrizione molto
attuale!
Quanti venti di dottrina abbiamo conosciuto in questi ultimi
decenni, quante correnti ideologiche, quante mode del pensiero... La piccola
barca del pensiero di molti cristiani è stata non di rado agitata da queste
onde - gettata da un estremo all’altro: dal marxismo al liberalismo, fino al
libertinismo; dal collettivismo all’individualismo radicale; dall’ateismo ad un
vago misticismo religioso; dall’agnosticismo al sincretismo e così via. Ogni
giorno nascono nuove sette e si realizza quanto dice San Paolo sull’inganno
degli uomini, sull’astuzia che tende a trarre nell’errore (cf Ef 4, 14).
Avere una fede chiara, secondo il Credo della Chiesa, viene spesso etichettato
come fondamentalismo. Mentre il relativismo, cioè il lasciarsi portare “qua e
là da qualsiasi vento di dottrina”, appare come l’unico atteggiamento
all’altezza dei tempi odierni. Si va costituendo una dittatura del relativismo
che non riconosce nulla come definitivo e che lascia come ultima misura solo il
proprio io e le sue voglie.
Noi, invece, abbiamo un’altra misura: il Figlio di Dio, il
vero uomo. É lui la misura del vero umanesimo. “Adulta” non è una fede che
segue le onde della moda e l’ultima novità; adulta e matura è una fede
profondamente radicata nell’amicizia con Cristo. É quest’amicizia che ci apre a
tutto ciò che è buono e ci dona il criterio per discernere tra vero e falso,
tra inganno e verità. Questa fede adulta dobbiamo maturare, a questa fede
dobbiamo guidare il gregge di Cristo. Ed è questa fede - solo la fede - che
crea unità e si realizza nella carità. San Paolo ci offre a questo proposito –
in contrasto con le continue peripezie di coloro che sono come fanciulli
sballottati dalle onde – una bella parola: fare la verità nella carità, come
formula fondamentale dell’esistenza cristiana. In Cristo, coincidono verità e
carità. Nella misura in cui ci avviciniamo a Cristo, anche nella nostra vita,
verità e carità si fondono. La carità senza verità sarebbe cieca; la verità
senza carità sarebbe come “un cembalo che tintinna”. (1 Cor 13,1).
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Approfondimenti sulla "Veritatis splendor"
di
P. Georges Cottier, O.P.
Introduzione
L’enciclica Veritatis splendor del 6 agosto 1993
intende precisare alcune "questioni fondamentali dell’insegnamento
morale della Chiesa", usando un necessario discernimento sulla
controversia tra specialisti dell’etica e della teologia morale.
Perciò non presenta un insegnamento completo della dottrina morale
cristiana . Tratta un numero
limitato di problemi. Quindi il documento deve essere letto in riferimento
all’ampia sintesi del Catechismo della Chiesa cattolica. Trova il
suo significativo proseguimento nelle encicliche Evangelium vitae (1995) e Fides
et ratio (1998).
Il rinnovamento della teologia morale auspicato dal Concilio
Vaticano II ha dato frutti notevoli. Ma alcuni teologi, basandosi su concezioni
antropologiche e etiche non sufficientemente criticate, sono riusciti ad una
messa in discussione sistematica del patrimonio morale della Chiesa.
- La competenza del Magistero in materia morale è stata messa in
causa. Si è trattato di una vera crisi. Bisognava raccogliere
la sfida.
La crisi della teologia è la ripercussione della frattura, a
livello culturale, sotto l’influsso di diverse correnti di pensiero, tra libertà e verità,
per le quali la sola libertà, nella sua completa autonomia, sarebbe creatrice
di valori. Nessun teologo difende una posizione così estrema. Ma alcuni hanno
posto, nell’ambito di comportamenti che chiamano "inframondani"
un’autonomia della ragione che vuole significare, la capacità di creare delle
norme morali riguardanti il "bene umano" indipendentemente
dalla Rivelazione e dal Magistero.
La "sequela Christi"
Il primo capitolo è una meditazione della Sacra Scrittura. Nel
giovane uomo che si avvicina a Gesù e gli chiede "Maestro Che cosa
devo fare di buono per ottenere la vita eterna?" (Mt 19, 16-22),
possiamo riconoscere ogni uomo. È verso Cristo che dobbiamo rivolgere il nostro
sguardo per rispondere alla questione morale: qual è il comportamento giusto che ci indica il Figlio di Dio, venuto
al mondo per questo?
Via via che prosegue il dialogo tra Gesù e il giovane uomo, la
meditazione scopre il contenuto essenziale della Rivelazione dell’Antico e del
Nuovo Testamento circa l’agire morale: la subordinazione dell’uomo e del suo
agire a Dio, a Colui che "solo è buono"; il rapporto tra il bene
morale degli atti umani e la vita eterna; la necessità di osservare i
comandamenti contenuti nella Legge divina e portati a compimento da Gesù; la
sequela di Cristo, che apre all’uomo la prospettiva dell’amore perfetto; ed
infine il dono dello Spirito Santo, fonte e risorsa della vita
morale della "creatura nuova" (cf. n. 28). In questo modo sono
appagate, al di là di ogni aspettativa, le aspirazioni più profonde del cuore
umano alla vita e alla felicità.
Rileviamo qui l’importanza del tema della sequela
Cristi che significa senza dubbio imitazione ma anche, più
radicalmente, partecipazione alla sua vita. Vita di libertà nella sua
obbedienza quale espressione del suo amore per il Padre fino al dono di se
sulla Croce (cf. n. 19-21). In tal modo sono poste in evidenza la novità e
l’originalità della morale cristiana, come il legame intrinseco che unisce la
fede e la morale: la fede, come sequela Christi, ha anche un
contenuto morale: "Non si tratta qui soltanto di mettersi in ascolto di un
insegnamento e di accogliere nell’obbedienza un comandamento; si tratta più
radicalmente, di aderire alla persona stessa di Gesù, di
condividere la sua vita e il suo destino, di partecipare alla sua obbedienza
libera e amorosa alla volontà del Padre". Come? Pregando e leggendo il
Vangelo. I tre libri su Gesù di Nazaret di Benedetto XVI sono un grande aiuto
in proposito, lo avvicinano al nostro cuore.
Si può vedere inoltre quanto la tendenza alla secolarizzazione
della morale possa fuorviare: la risposta di Gesù alla domanda del giovane
mostra che la questione morale è, alla radice, ed è una domanda religiosa (cf.
n. 9). Infine, bisogna rilevare la dimensione ecclesiale della morale cristiana
e la missione del Magistero della Chiesa (cf. n. 25, 26).
Libertà e verità
Il secondo capitolo enuncia alcuni principi
tramite i quali è possibile portare un giudizio su alcune tendenze attuali
della teologia morale che sono in opposizione alla "sana dottrina".
Non si tratta affatto di un rigetto globale ma di un esame critico che consente
di individuare possibili ambiguità e pericoli (e chiarirli) e al contempo di
evidenziare quanto di utile e di prezioso vi è contenuto (cf. n.34). L’enciclica
si propone quindi di ricordare e rafforzare un certo numero di presupposti
della teologia morale cattolica.
Il problema fondamentale è il rapporto della libertà umana alla
verità. Alcune tendenze della nostra cultura sono arrivate ad indebolire o
addirittura a negare la dipendenza della libertà dalla verità (ibid), cioè di negare che la verità ci rende
liberi.
Quindi il problema morale rimanda al problema antropologico (antropologia: scienza dell’uomo,
considerato sia come soggetto o individuo, sia in aggregati, comunità,
situazioni) e l’antropologia a sua
volta è illuminata dalla luce del mistero del Verbo incarnato, secondo la
dottrina sviluppata dalla Gaudium et Spes, n. 22. In questa
luce, infatti, percepiamo tutta la ricchezza del tema dell’immagine di Dio.
La morale e le sue esigenze si comprendono soltanto partendo dalla visione
dell’uomo come immagine di Dio.
Va da se che il modo di comprendere il rapporto tra la libertà e
la verità ha un’incidenza diretta sul modo di concepire il
rapporto tra la libertà e la legge.
Alcune correnti di pensiero sono giunte ad affermare l’autonomia
assoluta della libertà: l’autonomia morale significherebbe
una completa sovranità. La libertà sarebbe allora creatrice della
verità o dei "valori" (cf. n. 35). Spesso, tale sovranità, viene
attribuita alla ragione umana. Le tendenze culturali in questione hanno
esercitato un loro influsso anche nell’ambito della morale cattolica:
attribuiscono all’uomo la facoltà di dare a se stesso le leggi morali relative
al retto ordinamento della vita in questo mondo (cf. n. 36). Una distinzione
contrastante è stata introdotta tra un ordine etico, che avrebbe
origine solo umana, e un ordine della salvezza, per il quale
avrebbero rilevanza solo alcune intenzioni ed atteggiamenti interiori circa Dio
e il prossimo (cf. n. 37). Ennesimo tentativo di dividere e scollegare ciò che
è umano da ciò che è divino, ossessione del principe di questo mondo che soffre
terribilmente l’amore di Dio per l’uomo.
È necessario parlare del senso vero dell’autonomia morale dell’uomo
che si può definire teonomia partecipata (Il termine teonomia è usato per descrivere il Dio rivelato
nella Bibbia come
unica fonte possibile dell'etica e
della morale, in contrasto con autonomia,
cioè la facoltà o la pretesa dell'essere umano di stabilire esso stesso le
regole del proprio comportamento). L’uomo creato
libero, partecipa della signoria divina, in quanto è chiamato
al governo di se stesso. La sua autonomia morale è quindi un’autonomia
partecipata.
La dottrina della legge naturale spiega questo punto importante.
La legge naturale è la partecipazione nella creatura
ragionevole della legge eterna, sottolineando l’essenziale subordinazione della
ragione e della legge umana alla Sapienza di Dio e alla sua Legge (cf. n. 44).
L’enciclica chiarisce gli equivoci causati dall’espressione: legge
naturale. Si tratta della natura umana che comporta a titolo essenziale la
ragione ed è la ragione che, partendo dalla percezione delle finalità delle
inclinazioni inscritte nell’uomo dal Creatore, notifica alla volontà gli
imperativi della legge. Non vi è quindi né fisicismo né naturalismo (cf. n.
47-48), ma una fede sostenuta dalla ragione ed una ragione interpellata dalla
fede.
Una concezione esatta della legge naturale porta ad affermare la
sua universalità e la sua immutabilità,
disconosciute dalle teorie che mettono in opposizione la libertà e la natura,
oppure la storicità e la cultura. "Questa universalità non prescinde
dalla singolarità degli esseri umani, né si oppone all’unicità e
all’irrepetibilità di ciascuna persona; al contrario, essa abbraccia in radice
ciascuno dei suoi atti liberi, che devono attestare l’universalità del vero
bene. Sottomettendosi alla legge comune, i nostri atti edificano la vera
comunione delle persone..." (n. 51). L’enciclica ricorda in modo opportuno
come l’idea stessa di storicità suppone elementi strutturali permanenti; il
riferimento che Gesù ha fatto al "principio", lo attesta. L’uomo
si colloca sempre in una cultura particolare, ma non si esaurisce in questa
stessa cultura. "Del resto, il progresso stesso delle culture dimostra che
nell’uomo esiste qualcosa che trascende le culture" il quale è
precisamente la natura dell’uomo, con la quale la cultura è
misurata e la dignità della persona affermata (cf. n. 53).
La coscienza morale
Teorie
in opposizione alla tradizione del Magistero
Nel proseguimento delle concezioni sopra ricordate del rapporto
verità-libertà, si situano le teorie della coscienza morale, teorie
che sono in opposizione alla tradizione del Magistero e che conducono ad
un’interpretazione "creativa" (cf. n. 54 ss.).
Questa interpretazione è considerata negativa perché rappresenta
una reazione alla spiegazione data dai manuali dell’epoca preconciliare che
definiscono l’azione della coscienza una applicazione di norme morali generali.
Queste norme, secondo le nuove interpretazioni,
non sono considerate in grado di accogliere e di rispettare l’intera
irripetibile specificità di ogni singolo atto della persona. La legge non può sostituirsi
alla persona nella sua decisione. Anzi, secondo questa teoria, vi sarebbe
opposizione tra la legge e la decisione personale. Perciò la coscienza non è
più concepita come un’istanza di giudizio, ma come un’istanza di decisione, che
sarebbe essa stessa legge. La scelta dovrebbe basarsi su motivi ragionevoli.
Riguardo alle norme enunciate dal Magistero, sarebbero valide soltanto in virtù
degli argomenti che le sostengono.
Più che criteri oggettivi e vincolanti, queste norme dovrebbero
dare una prospettiva generale che aiuta l’uomo nella sua vita personale e
sociale. In definitiva è sulla convinzione razionale della validità di queste
norme che si dovrebbe decidere. Perciò si ritiene che le posizioni troppo
categoriche del Magistero siano di ostacolo alla maturazione morale dell’uomo.
Per altri teologi invece, le norme enunciate dal Magistero
avrebbero un valore speculativo. La pratica esigerebbe
una considerazione esistenziale più concreta che potrebbe legittimare le
eccezioni. Il criterio decisivo sarebbe la coerenza della scelta con
un’intenzione buona. Una scelta, contraria ad un atto qualificato come
intrinsecamente cattivo dalla legge a livello astratto, potrebbe trovarsi
giustificato a livello concreto. È quindi la singola coscienza che deciderebbe
del bene e del male. Si instaura così una separazione rovinosa tra la legge e
la scelta che ogni singolo uomo deve fare. I motivi sono le cosiddette
"pastorali" (cf. n. 55-56).
Teorie
secondo la tradizione del Magistero
L’enciclica ricorda le grandi linee della dottrina cristiana sulla
coscienza. Questa è testimone per l’uomo della sua fedeltà o
infedeltà nei riguardi della legge: essa è l’unico testimone del dialogo intimo
dell’uomo con se stesso, di più, del suo dialogo con Dio. Essa è un giudizio
pratico, che al termine dei ragionamenti, intima all’uomo che cosa deve fare o
non fare, oppure che valuta un atto da lui ormai compiuto.
La legge naturale mette in evidenza le esigenze oggettive del bene
morale, la coscienza è l’applicazione della legge al caso particolare; diventa
così per l’uomo un dettame interiore, una chiamata a fare il bene hic
et nunc in una situazione concreta. È riconoscimento, e non negazione,
del carattere universale della legge e dell’obbligo. Essa costituisce la norma
prossima della moralità personale.
Bisogna cogliere il vero senso della parola applicazione,
che non ha niente di meccanico: è interiorizzazione della legge, la cui forza
luminosa è capace d’illuminare l’atto singolare, quale atto della persona.
La coscienza può sbagliare, non è infallibile. Il suo
errore può essere invincibile o colpevole secondo i casi. Formare la propria coscienza per renderla atta ad enunciare giudizi
veri, è quindi un grave dovere per tutti. Per questa formazione, la Chiesa
e il Magistero sono al servizio del popolo di Dio.
L’opzione fondamentale
La riflessione conduce sulle teorie che hanno al centro la
"scelta fondamentale". Che una scelta fondamentale, quella della fede
"operante mediante la carità" (Gal 5, 6) e dell’obbedienza della fede
(cf. Rm 16, 26), qualifica la vita morale e impegna radicalmente la libertà di
fronte a Dio, questo è un tema che ha profonde radici bibliche. È quindi felice
che la teologia ne rilevi l’importanza.
Ma ciò che si deve rifiutare, è una certa interpretazione della
scelta fondamentale che poggia su una concezione sbagliata del rapporto tra
persona e atti che conduce a dissociare opzione fondamentale e scelta
particolare. Si tratta di una libertà fondamentale mediante la
quale la persona decide globalmente di se stessa, non attraverso una scelta
precisa, cosciente e consapevole. In questo modo, la distinzione proposta
diventa una dissociazione tra due tipi di libertà di scelta, segnando due
livelli di moralità. Allorché si attribuisce la distinzione tra il bene e il male
alla scelta fondamentale, si qualifica come "giuste" o
"sbagliate" le scelte particolari "intramondani". È
"in dipendenza da un calcolo tecnico della proporzione tra beni e mali che
i comportamenti determinati vengono giudicati come moralmente giusti o
sbagliati. Si introduce così una scissione
tra due livelli di moralità.
Alle teorie ricordate, bisogna rispondere che l’opzione
fondamentale si attua sempre mediante scelte consapevoli e libere. Perciò, essa
è revocata quando l’uomo impegna la sua libertà in scelte consapevoli
contrarie, in materia morale grave.
Le teorie citate suppongono un’antropologia dualista, che non
rispetta "l’integrità sostanziale o l’unità personale dell’agente morale
nel suo corpo e nella sua anima. Un’opzione fondamentale, intesa senza
considerare esplicitamente le potenzialità che mette in atto e le
determinazioni che la esprimono, non rende giustizia alla finalità razionale
immanente all’agire dell’uomo e a ciascuna delle sue scelte deliberate".
La moralità degli atti non si evince solo dall’intenzione. "Ogni scelta
implica sempre un riferimento della volontà deliberata ai beni e ai mali,
indicati dalla legge naturale come beni da perseguire e mali da evitare"
(n. 67). In realtà, l’uomo sceglie il Bene assoluto come suo fine ultimo
attraverso la scelta di beni determinati, in conformità all’ordine voluto da
Dio.
La moralità dell’atto umano
In definitiva è in gioco la natura degli atti umani o morali.
Questi sono tali "perché esprimono e decidono della bontà o malizia
dell’uomo che compie quegli atti" (n. 70). Si può parlare, senza forzare
il senso dei termini, della concezione personalista presente
nell’enciclica; questa mette in evidenza l’unità, corpo e anima, dell’agente
morale. Quanto alla moralità, essa significa ordinazione razionale e volontaria
dell’uomo verso il suo fine ultimo, Dio, vero bene dell’uomo. Questa
ordinazione deliberata degli atti a Dio conduce ad affermare il carattere teleologico della
legge morale (teleologia: concezione secondo la quale gli eventi, anche quelli non
legati all’azione volontaria e consapevole degli uomini, avvengono in funzione
di un fine o scopo).
È su questo punto precisamente che un certo numero
d’interpretazioni rimettono in causa il senso stesso della moralità,
valorizzando in modo esclusivo l’intenzione soggettiva e le circostanze (più
precisamente le conseguenze) dell’atto morale a discapito del suo oggetto. Le
teorie etiche teleologiche (proporzionalismo, consequenzialismo) sottomettono
il soggetto agente, per così dire, a un duplice dovere, creando una distinzione
tra ordine morale che riguarderebbe valori propriamente morali,
come l’amore di Dio, la benevolenza verso il prossimo, la giustizia, e un
ordine premorale in grado di valutare i vantaggi e svantaggi recati dal
soggetto ad altre persone. In altri termini, "sulla specificità morale
degli atti, ossia sulla loro bontà o malizia, deciderebbe esclusivamente la
fedeltà della persona ai valori più alti della carità e della prudenza, senza
che questa fedeltà sia necessariamente incompatibile con scelte contrarie a
certi precetti morali particolari" (n. 75). Oppure, la bontà
morale dell’atto sarebbe valutata a partire dall’intenzione del
soggetto riferita ai beni morali, mentre la sua "rettitudine" lo
sarebbe "sulla base della considerazione degli effetti o conseguenze
prevedibili e della loro proporzione" (ibid). Secondo tale
concezione, che proviene da un’antropologia dualista, il soggetto potrebbe
decidere valido agire contro una norma universale negativa.
Una tale concezione delle cose non è compatibile con la dottrina
della Chiesa, perché crede di poter giustificare, come accettabili, scelte
deliberate contrarie ai comandamenti della Legge divina. "Quando l’apostolo
Paolo ricapitola nel precetto di amare il prossimo come se stessi il compimento
della legge (cf. Rm 13,8-10), non attenua i comandamenti, ma piuttosto li
conferma, dal momento che ne rivela le esigenze e la gravità" (n.76).
Nella teologia morale l’oggetto indica il termine
della volontà deliberata. La ragione presenta alla
volontà alcuni oggetti di scelta come conformi o contrari alla legge morale.
Questa illumina sulla compatibilità o incompatibilità dell’oggetto scelto con
l’amore di Dio, il fine ultimo. E come la persona realizza la sua perfezione
nell’unione con l’amore di Dio con la sua volontà, la scelta libera impegna la
persona stessa. "La moralità dell’atto umano dipende anzitutto e
fondamentalmente dall’oggetto ragionevolmente scelto dalla volontà libera".
Dicendo che l’atto umano dipende dal suo oggetto, si afferma: "se
questo è ordinabile o meno a Dio, a Colui che "solo è
buono", e così realizza la perfezione della persona, (cf. n. 78). La
moralità è quindi una realtà interiore alla persona e non si potrebbe, senza
cadere in un dualismo contrario alla natura delle cose, instaurare nell’oggetto
stesso una sorta di scissione tra aspetto morale e aspetto "fisico".
È l’oggetto, in quanto conforme all’ordine della ragione, causa della bontà
della volontà.
L’enciclica non minimizza per tanto l’importanza dell’intenzione e
delle conseguenze. Semplicemente, queste non possono eliminare l’oggetto ne
metterlo tra parentesi.
Ora si può comprendere la dottrina degli atti intrinsecamente
cattivi. Sono, nella loro oggettività, atti "non-ordinabili" a
Dio perché contraddicono il bene della persona. L’intenzione non può renderli
buoni. Se un’intenzione buona o delle circostanze particolari possono
attenuarne la malizia, non possono sopprimerla (cf. n. 81). Le norme che
proibiscono tali atti sono valide in ogni circostanza, semper et pro
semper. "Come si vede, nella questione della moralità degli atti
umani, e in particolare in quella dell’esistenza degli atti intrinsecamente
cattivi, si concentra in un certo senso la questione stessa dell’uomo, della
sua verità e delle conseguenze morali che ne derivano"
(n. 83).
Se l’uomo volesse decidere, in virtù della sua intenzione, della
bontà o della malizia dei suoi atti, si metterebbe "al di là del bene e
del male", vorrebbe sfuggire alla verità della sua condizione di creatura.
Si porrebbe come creatore di valori sulla base della sua intenzione soggettiva
e del calcolo, per altro discutibile, delle conseguenze.
Conseguenze pastorali
Il terzo capitolo alla luce di quanto precede ricava importanti
conclusioni pastorali.
La formazione della coscienza morale rientra nel
grande progetto della nuova evangelizzazione, che deve essere opera di tutta la Chiesa, "popolo
profetico". In questo quadro, i teologi moralisti hanno una missione
propria.
La formazione della coscienza morale è essenziale per la santità
della persona (cf.n. 88-94), è la condizione di una vita sociale degna
dell’uomo (cf. n. 95-101).
I cristiani sono invitati a riscoprire "la novità della loro
fede e la sua forza di giudizio di fronte alla cultura dominante e
invadente" (n.88). La fede possiede un contenuto morale, essa comporta
l’accoglienza dei comandamenti divini. Nella vita morale, la fede diventa
"confessione", si fa testimonianza (cf. n. 89). È da
rilevare il bel riferimento al martirio cristiano, che conferma da
solo il carattere inaccettabile delle
teorie etiche che negano l’esistenza di norme morali determinate e valide senza
eccezione (cf. n. 90). Ci sono verità e valori morali per i quali si deve
essere disposti a dare la vita (cf. n. 94). Peraltro, i cristiani non sono soli
a saperlo.
"La fermezza della Chiesa, nel difendere le norme morali
universali e immutabili, non ha nulla di mortificante"(n. 96). Di fronte
alle leggi morali, senza alcuna eccezione, tutti gli uomini sono uguali. Tali
leggi costituiscono una garanzia della dignità dell’uomo e di una giusta
convivenza sociale, sia in campo economico che in campo politico.
L’insegnamento della morale si comprende alla luce della
misericordia di Dio.
È sempre possibile con l’aiuto della grazia di Dio e i mezzi di
santificazione che scaturiscono dal mistero della Redenzione, osservare la
legge di Dio. La comprensione per l’umana debolezza non deve compromettere e
falsificare la misura del bene e del male (n. 104). Al contrario, accettare la
sproporzione tra la legge e la capacità delle sole forze predispone
all’accoglienza della grazia (cf. n. 105). Quando, per la dignità e la vera
libertà dell’uomo, la Chiesa annuncia la legge morale, il suo sguardo è rivolto
a Cristo in Croce. Essa, allora, partecipa alla sua missione nella certezza che
la vera libertà è nell’amore che si dona.
L’esempio di Maria Madre di misericordia, citato nella conclusione
ricorda "la straordinaria semplicità" della vita cristiana. Essa
consiste nel "seguire Cristo, nell’abbandonarsi a lui, nel
lasciarsi trasformare dalla sua grazia e rinnovare dalla sua misericordia, che
ci raggiungono nella vita di comunione della sua Chiesa" (n. 119).
Conclusione
Per avere una giusta concezione dell’agire morale, bisogna
considerare la verità dell’uomo. Questa è contenuta nella dottrina dell’"immagine
di Dio": "La vera libertà dell’uomo segno altissimo
dell’immagine divina. Dio volle, infatti, lasciare l’uomo "in mano al
suo consiglio" Cf. Sir 15, 14), così che esso cerchi
spontaneamente il suo Creatore, e giunga liberamente, con la adesione a lui,
alla piena e beata perfezione" (Gaudium et spes, n. 11).
Infatti la conoscenza di se come immagine di Dio è
il fondamento dei giudizi morali.
Noi camminiamo verso Dio, nostro fine ultimo, attraverso la
mediazione di atti singolari che riguardano dei beni particolari che per se
stessi sono capaci o non di essere ordinati all’amore di Dio. Ma ci sono degli
atti (atti intrinsecamente cattivi) che per se stessi sono contrari all’amore
di Dio. Veritatis splendor, n. 83, può quindi
affermare, come abbiamo detto, che nella questione della moralità
nell’"esistenza degli atti intrinsecamente cattivi, si concentra in un
certo senso la questione stessa dell’uomo, della sua verità e
delle conseguenze morali che ne derivano (...)".
P.
Georges Cottier, O.P.
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