martedì 25 aprile 2017

1t - 5 - La reazione al relativismo

Le Slides e la Dispensa






























SOCRATE (469 – 399 a.C.)

Con Socrate tutta la filosofia e la cultura occidentale riparte alla ricerca della Verità. Socrate è considerato il primo vero filosofo, insieme altri due giganti della filosofia greca Platone e Aristotele. Tutti quelli fino ad ora visti infatti saranno poi chiamati “presocratici”. Questi si erano dati da fare per cercare la Verità, fino però ad arrivare a riconoscere che la Verità o non esiste o non è data conoscere a noi poveri mortali, ma anche se ci fosse dato di conoscerla non saremmo in grado di trasmetterla ad altri. La ricerca quindi si era conclusa con il Relativismo.
Con Socrate riparte un nuovo percorso per la ricerca della Verità (anche se lui non riuscirà mai a definirla). Sarà portata ai massimi livelli la critica alla Società greca di quel tempo e a tutto quello che era il sapere di quel tempo. Da qui tutta la filosofia e la cultura occidentale, come abbiamo detto, riparte alla ricerca della Verità. Non si ripartirà più dallo studio della Natura, ma dal concetto di Esistenza, cercando una riconciliazione fra Ragione ed Esperienza.
Tutto questo si concluderà, o meglio avrà un punto d’arrivo nella filosofia nichilista che affermerà che la vita non ha un senso e che Socrate e tutti i suoi successori hanno ingannato l’umanità cercando di dare ad essa un senso, un senso che non può avere.
Ai nostri giorni esprime bene questo pensiero una canzone fra quelle di maggior successo: “Voglio trovare un senso alla vita, ma la vita un senso non ce l’ha” (Vasco Rossi).
F. Nietzsche dirà: “Socrate e Platone sono sintomi del decadimento, gli strumenti della dissoluzione greca, gli pseudo Greci, gli antigreci”.
Quanto anticipato, non è per il dispetto di rivelare subito chi è “l’assassino”, ma per addentrarci, con maggiore curiosità e attenzione, nei ragionamenti che Socrate introdurrà per contestare il Relativismo dei Sofisti, ma che è anche il Relativismo e il Nichilismo di oggi (l’assassino appunto… ma della Verità).

Una premessa è necessaria, Socrate non ha scritto nulla, sappiamo di lui dai suoi allievi:  Aristofane, Senofonte, Platone e poi da Aristotele, che però non l’ha conosciuto di persona. Questo perché Socrate si è sempre e solo preoccupato di far ragionare il suo interlocutore in modo che scoprisse da solo la Verità: “io vi posso insegnare a scoprire la Verità, ma io non ve le posso dare”. Il metodo socratico è un metodo dialettico d'indagine filosofica basato sul dialogo e chiamato anche “maieutica”. Il termine maieutica viene dal greco maieutiké (sottinteso: téchne) e significa "arte della levatrice" (o "dell'ostetricia"). L'espressione designa il metodo socratico così come è esposto da Platone nel Teeteto. L'arte dialettica, cioè, viene paragonata da Socrate a quella della levatrice: come quest'ultima, il filosofo di Atene intendeva "tirar fuori" dall'allievo pensieri assolutamente personali, a differenza di quanti volevano imporre le proprie vedute agli altri con la retorica e l'arte della persuasione dei sofisti.

Iniziamo dicendo che egli si pose nella sua società come una Coscienza acritica e civile insegnando nelle piazze, discutendo, contraddicendo e provocando i concittadini tanto da essere alla fine condannato per “empietà” cioè di non credere agli dei e di corrompere i giovani. Non accettò nessun compromesso in merito, ma affrontò con serenità la seppur ingiusta condanna a morte.

Socrate sofista

Socrate fu ovviamente influenzato dai sofisti, per esempio apprese da loro:
1.    una particolare attenzione per l’uomo e il disinteresse delle indagini intorno al cosmo (la phýsis)
2.   la tendenza a cercare nell’uomo i criteri del pensiero e dell’azione,
3.   il forte uso della Ragione
4.   l’inclinazione verso la dialettica e il paradosso, non per confutare ogni cosa, ma per raggiungere uno scopo: la scoperta della Verità.

Socrate anti-sofista

Pur utilizzando qualche tecnica dei sofisti Socrate riprese la battaglia della ricerca della Verità con:
1.   La seria e puntuale ricerca della Verità,
2.   il rifiuto di ridurre la filosofia a pura retorica per dimostrare tutto e il contrario di tutto,
3.   l’impegno ad andare oltre lo sterile relativismo conoscitivo e morale.

Una delle più celebri frasi di Socrate è: “io so di non sapere”. Questa frase è erroneamente considerata un atto di modestia, in realtà era una consapevolezza che tutto quello che lo circondava non gli sembrava in grado di manifestargli la Verità.
·         Non ci sono leggi,
·         non ci sono consuetudini sociali,
·         non ci sono credenze religiose,
·         non ci sono principi morali,
·         non ci sono dottrine di filosofi,
che presentino la Verità intera.

Tutte queste cose si contraddicono fra loro, perché sono troppo umane, troppo legate al mondo mutevole e materiale e quindi non possono essere Verità. Non c’è nulla che si presenti come un “Sapere”.
“Nessuna delle convinzioni umane note si presenta come Verità”. D’altro canto solo chi sa di non sapere è disposto a cercare davvero la Verità, chi crede di conoscerla non ascolta altre opinioni o credenze, cioè rimane chiuso alla conoscenza. Quindi una certezza è quella di sapere di non sapere, cosa che riapre la ricerca della Verità.

Il Metodo

Ma veniamo al metodo socratico della maieutica. Socrate aiuta chi interloquisce con lui a far venire alla luce la Verità, Verità che sta proprio nel soggetto, nell’animo dell’uomo. Altra arma è quella dell’Ironia: dal greco eironèia; ipocrisia, falsità, finta ignoranza, simulazione (più appropriata nel caso di Socrate). Indica di fatto il gioco scherzoso, molteplice e vario delle finzioni e degli stratagemmi messi in atto per costringere l’interlocutore a dar conto di se medesimo.

Il metodo socratico è quindi basato su domande e risposte tra Socrate e l’interlocutore di turno, procede per confutazione, ossia per eliminazione successiva delle ipotesi contraddittorie o infondate. Esso consiste nel portare gradualmente alla luce l’infondatezza delle convinzioni che siamo abituati a considerare come scontate e che invece ad un attento esame rivelano la loro natura di “opinioni”. Tale metodo è detto “maieutico” proprio perché conduce per mano l’interlocutore con brevi domande e risposte che inducono l'interlocutore ad accorgersi della propria ignoranza e a riconoscere il criterio della Verità rispetto alla falsità delle sue presunzioni. Quindi non si basa sul tentativo di vincere l’interlocutore con la propria abilità retorica, così come facevano i sofisti, ma di aiutarlo a raggiungere da solo la Verità.

Socrate e la Verità

Socrate non contestava il fatto in sé che si potessero avere Verità definitive, ma che venissero spacciate per tali delle convinzioni che non lo erano. Socrate è quindi convinto assertore che la Verità esiste in quanto viene conosciuta dal soggetto ed essa non può essere insegnata o trasmessa. ”Conosci te stesso” è un’altra affermazione che spiega questo metodo per la conoscenza. “Uomo conosci la tua anima, uomo conoscendo la tua anima tu conosci la Verità”.
·         La Verità esiste solo in quanto viene riconosciuta dal soggetto
·         La Verità va riconosciuta e non insegnata
·         La dimensione della Verità siamo noi stessi
·         Questa dimensione è la propria COSCIENZA (quindi è un Pensiero)
·         Alla Verità ci si arriva, non con lo studio della natura, ma con la Filosofia, con la Conoscenza e con la Sapienza
Socrate cerca l’Essenza delle cose e dell’Uomo, cioè supera il bisogno di conoscere come funzionano le cose, come farà poi l’Illuminismo del ‘700. Socrate invece si pone la domanda: quand’anche io ho capito cos’è il fuoco e che non è una scintilla rubata da Prometeo al carro avvampante del Sole, ma un fenomeno spiegabile con lo studio della Natura (le scienze naturali), mi cambia qualcosa della vita, cambia il senso della mia vita? È il fondamento dell’esistenza che mi può cambiare la vita. Allora possiamo dire che l’Universale di Socrate è il Concetto, il concetto di Casa, il concetto di Giustizia, il Concetto di Bellezza, cose che non si possono toccate, non si possono mangiare, non hanno consistenza, non si possono vedere con gli occhi, ma si possono vedere con gli occhi della mente: con il pensiero.
Pensiamo per esempio di porci la domanda di Che cosa è la Giustizia. È rifondare un debito? È dare ad ognuno il suo? È non sfruttare il debole? Ma Socrate direbbe: No! Giustizia non sono le azioni giuste, che di fatto si consumano nel particolare e nel mondano, per quanto belle possano essere. Non sono una proprietà (un accidente). Bisogna pensare a cos’è quel “qualcosa” che rende quell’azione giusta. Che sta al di sopra di quell’azione e che non si riduce a quell’azione. Questo qualcosa viene inteso come un Universale.

Gli Universali

Universale, dal lat. universalis (der. di universus «tutto intero»). Ciò che è comune a più realtà individuali, per es., la (o le) proprietà che definiscono una classe particolare di individui, un genere o una specie. Termine che sulla scia dell’insegnamento socratico assumerà rilievo soprattutto nella filosofia platonica e aristotelica, incentrato nella ricerca di concetti universali (il Bene in sé, in quanto distinto dai molti beni particolari).
Quando il pensiero pensa alla Verità pensa all’Universale (non pensa più al particolare). È quello che viene definito da Socrate il Concetto di Universale. Nella filosofia antica il concetto sta a indicare l’essenza, ciò che rimane stabile al di là della mutevolezza del dato sensibile e della molteplicità delle apparenze. Così la dottrina di Socrate, intende il Concetto come ciò che è comune a più specie e, subordinatamente, a più individui, l’universale in cui si coglie la realtà stessa; nei concetti si rivelano le idee esistenti in sé stesse al di là e al di sopra del mondo sensibile.
Quindi, per esempio: la Giustizia in se stessa è quella cosa che, realizzandosi in ogni azione giusta, fa si che essa sia giusta. La Giustizia, così intesa, è Universale, rispetto al quale le azioni giuste sono particolari. Il Sapere di cui si è privi, potrà essere raggiunto solo a condizione che il suo contenuto si presenti come determinazione Universale, ovvero come oggetto del pensiero, oggetto di ragione o di pensiero puro, oggetto di Filosofia.
Altra osservazione è che i Concetti, non si toccano, non si sa dove stiano, quindi anche la Verità non la si vede, non la si ascolta, la si Pensa. Alla Verità ci si può arrivare solo attraverso l’elaborazione del pensiero. La Verità è data dall’Universale che il pensiero coglie.
Un semplice esempio è dato dal Concetto di Casa che noi occidentali abbiamo e che fa parte della nostra cultura e che potremmo tutti noi esprimere con un disegno come nella figura 1. Altra cosa è la casa in cui realmente viviamo che è sicuramente molto diversa come per esempio nella figura 2.
La prima è l’Universale, l’altra la Particolare casa nostra, che non ci assomiglia per niente e che addirittura è all’interno di un palazzo di tanti piani, ma che comunque chiamiamo casa perché si rifà all’Universale di Casa che è nella nostra mente da quando la disegnammo in prima elementare.
Per cui:
·         Il dialogo fra gli Uomini è possibile solo intorno al Concetto, perché è la Ragione che la fa da padrone. Certo c’è bisogno di una Guida, di un rapporto Maestro Allievo.
·         Ricercare la Verità vuol dire andare alla ricerca della stessa forza suprema che può guidare la vita dell’Uomo.
·         Il manifestarsi della Verità ci spinge necessariamente a vivere conformemente ad essa. In altri termini, basta conoscere il Bene perché lo si pratichi (intellettualismo etico).
·         Chi è che fa il Male sapendo cosa è il Bene?

Il Piacere e il Dolore, il Bene e il Male

L’Uomo è soggetto a due forze: il Piacere e il Dolore. Noi giudichiamo una azione buona quando è piacevole. Un’azione cattiva quando è dolorosa. Giudichiamo un’azione buona: cattiva, quando un’azione buona dà un dolore maggiore del piacere da cui si era partiti. Giudichiamo una azione cattiva: buona, quando da un dolore iniziale ne ricaviamo un piacere maggiore del dolore di partenza.
In altri termini: uno sportivo affronta le difficoltà e le fatiche dell’allenamento (azione apparentemente cattiva), perché “investe” nel raggiungimento di una primato e relativa soddisfazione personale (azione veramente buona). Chi invece non si applica in qualcosa e cerca solo azioni facili e piacevoli (azioni apparentemente buone) non arriva a nessun risultato (azione decisamente cattiva).
Chi mai farebbe allora una azione buona sapendo che dopo ne risulterà un dolore ancora più grande del piacere iniziale? La farebbe solo chi ignora che quella azione creduta buona porta invece un gran dolore. Quindi non sceglie azioni che portano ad un bene maggiore del dolore iniziale solo chi è ignorante (non conosce la Verità). Quindi siamo portati a fare il male perché non conosciamo il Bene, cioè la Verità. La Conoscenza salva l’Uomo, l’ignoranza lo distrugge. L’errore dell’Uomo non deriva dalla Volontà, ma dall’ignorare la Verità. La Volontà di per se condurrebbe solo verso il Bene.

La Virtù.

Raggiungere la Verità significa raggiungere “la Salvezza”, ovvero quella forza che governa e domina la vita dell’Uomo = la Virtù, cioè l’essere Virtuosi. L’Uomo Sapiente è l’Uomo che ha la Virtù.
Per i greci la Virtù è quell’attività o quel modo di essere che perfeziona ciascuna cosa facendola essere ciò che deve essere. Per esempio la virtù del cavallo è quella di essere veloce,  di un cane è di essere un fedele guardiano, ma
“la virtù dell’Uomo non potrà che essere se non ciò che fa si che l’anima sia quale per sua natura deve essere, ossia buona e perfetta”.
La Virtù quindi è Scienza, la Conoscenza salva, perché la Virtù è la conoscenza. Senza questa conoscenza siamo perduti.
Concludendo diciamo che i sofisti hanno spostato l’attenzione dalla Natura all’Uomo, cosa che Socrate ha ripreso addentrandosi però nel suo profondo per una più ostinata ricerca della Verità.

Alcune frasi celebri di Socrate

·         “Se fosse necessario o commettere ingiustizia o subirla, sceglierei il subire ingiustizia piuttosto che commetterla”.
·         “Esiste un solo bene, la conoscenza, e un solo male, l’ignoranza”.
·         “La pena che i buoni devono scontare per l’indifferenza alla cosa pubblica è quella di essere governati da uomini malvagi”.
·         “La vera saggezza sta in colui che sa di non sapere”.      
·         “È opportuno che il malvagio venga punito, quanto lo è che il medico curi l’ammalato”.

La scoperta dell’anima umana

Socrate fu di fatto il primo filosofo occidentale a porre in risalto il carattere personale dell'anima umana, almeno secondo l'interpretazione data da Alfred Edward Taylor (1869-1945) in Socrate, cit. in F. Sarri, Socrate e la nascita del concetto occidentale di anima, Vita e Pensiero, Milano 1997)
È l'anima, infatti, (psyché) a costituire la vera essenza dell'uomo. Sebbene la tradizione orfica e pitagorica avessero già identificato l'uomo con la sua anima, in Socrate questa parola risuona in forma del tutto nuova e si carica di significati antropologici ed etici:
« Tu, ottimo uomo, poiché sei ateniese, cittadino della Polis più grande e più famosa per sapienza e potenza, non ti vergogni di occuparti delle ricchezze, per guadagnarne il più possibile, e della fama e dell'onore, e invece non ti occupi e non ti dai pensiero della saggezza, della Verità, e della tua anima, perché diventi il più possibile buona? »(Apologia di Socrate, traduzione di Giovanni Reale, Rusconi, 1993)
Mentre gli Orfici e i Pitagorici consideravano l'anima ancora alla stregua di un demone divino, Socrate la fa coincidere con l'io, con la coscienza pensante di ognuno, di cui egli si propone come maestro e curatore. Non sono i sensi ad esaurire l'identità di un essere umano, come insegnavano i sofisti, l'uomo non è corpo ma anche ragione, conoscenza intellettiva, che occorre rivolgere ad indagare la propria essenza. Non solo Platone in diversi passi dei suoi dialoghi, ma anche la cosiddetta tradizione "indiretta" testimoniano come Socrate, al contrario dei sofisti, riconducesse la cura dell'anima alla conoscenza dell'intima natura umana nel senso su indicato.

Il Pensiero di Socrate in sintesi


Una delle peculiarità del pensiero socratico - che in seguito verrà elaborata da Platone - è data dal dialogo, inteso come strumento conoscitivo in grado di costruire una Verità intersoggettiva attraverso lo scambio di opinioni con più interlocutori. Alla base di tale pratica conoscitiva Socrate pone l'ignoranza, ovvero la consapevolezza dei propri limiti, del "sapere di non sapere".

Il primo momento del dialogo socratico viene detto protrettico ed ha lo scopo di minare le certezze dell'interlocutore attraverso un uso mirato dell'ironia, della dissimulazione e dell'ostentazione di un'apparente ingenuità. Il secondo momento è dato dall'imbarazzo - aporìa - a cui perviene l'interlocutore quando scopre le conseguenze dalla tesi che ha scelto di sostenere. Una volta avvenuto ciò, l'interlocutore sarà costretto a sviluppare delle teorie personali: proprio per questo Socrate definirà la sua tecnica dialogica come maieutica, in quanto causa della nascita di nuove idee.

Una delle costanti presenti nel dialogo socratico è data dalla domanda: "che cos'è?". Una tale richiesta rende possibile la determinazione di ciò che Aristotele chiamerà l'essenza delle cose, o anche il loro concetto: da un certo numero di singoli uomini, ad esempio, si può arrivare a stabilire che cos'è l'uomo.

Altro punto fondamentale del pensiero socratico sta nell'identificazione tra sapere e virtù, da cui discende la convinzione dell' insegnabilità della virtù. Quest'ultima, infatti, può essere definita come una scienza del bene e del male, ed ha la stessa possibilità di essere insegnata di qualunque altra disciplina: nel momento in cui si conosce la differenza tra bene e male, è impossibile agire non in conformità con la virtù. Tale affermazione sta alla base dell'intellettualismo etico di Socrate, in quanto sottende il primato della conoscenza sulla volontà, eludendo qualsiasi componente emotiva.

Dal concetto socratico del bene traspare una concezione interiorizzata dell'uomo, le cui peculiarità risultano orientate verso la sua anima, considerata come la vera realtà umana, nei confronti della quale il corpo svolge una mera funzione strumentale. Il motto "conosci te stesso", quindi, viene da Socrate inteso come un'esortazione a riconoscere nell'anima la vera realtà dell'uomo e nella virtù il suo compimento.

Riflessioni


La Comprensione della Verità è il centro di interesse di Socrate, che non solo fa un salto di qualità rispetto ai Fisici spostando l’attenzione dalla phýsis (la Natura) all’Essenza dell’Essere, ma abbandonando la rassegnazione dei sofisti al comodo “non esiste la Verità e se esistesse non sarei in grado di spiegarla”. Dai sofisti erediterà il passaggio dallo studio della natura a quello dell’Uomo, ma aprirà questa strada della ricerca dell’essenza delle cose e dell’Essenza dell’Uomo nella quale si tufferanno arricchendola Platone prima e Aristotele dopo.

Siamo infatti partiti dall’interesse per l’Archè per capire il fondamento della Natura (i fisici), per poi cercare di capire il rapporto fra la realtà che ci circonda e la conoscenza di questa realtà (i sofisti) per cercare poi di rispondere alle grandi domande sulla consistenza di questa realtà, l’Unità e la Molteplicità, la Stabilità dell’essere ed il Divenire degli enti, cioè delle cose che mutano, che cambiano, che si evolvono, per arrivare da una parte alla rinuncia di ricercare, e quindi scoprire, l’essenza delle cose (come poi fecero anche gli illuministi con il loro: “ignoramus et ignorabimus”) e dall’altra a riprendere la ricerca per rispondere alla domanda sempre più pressante:
·         ma qual è la Verità delle cose che abbiamo davanti?”.
·         “qual è il rapporto fra me e il mondo che ci circonda”.
·         “io, in mezzo a tutte queste cose, cosa sono?”.
·         “qual è la Verità, cioè la Verità di me stesso e la Verità del mondo che mi circonda?”.
·         “qual è la mia collocazione in questo mondo che mi circonda?”.
Socrate non risponde di fatto a queste domande, tant’è vero che è considerato ancora un sofista, perché il suo rapporto con la realtà è ancora problematico, non risolutivo. Il suo “so di non sapere” in effetti è una resa incondizionata nel raffronto di noi stessi con il mondo che ci circonda.
Ma la Realtà è la Verità più vera della mia vita. È interessante qui richiamare un aforisma di Kierkegaard che immagina un filosofo che, dopo sofisticati ragionamenti sull’impossibilità di conoscere la Verità, ritorna a casa vedendo suo figlio non può fare a meno di emettere un giudizio sul valore di suo figlio, di gran lunga maggiore di quello del suo cane e che il suo cane ha un valore decisamente maggiore del suo ombrello. Emette un giudizio di valore e questa è la realtà che lo circonda. Come si fa allora a dire, come fece Rousseu, “mettiamo da parte i fatti”, le cose non ci servono, non le possiamo conoscere.
La Realtà invece sono io, la realtà è  la mia vita, sono le persone che mi circondano, sono le cose e le circostanze che danno senso quotidiano a ciò che sono e a ciò che faccio. Con Socrate è avvenuto un salto di qualità nella ricerca della Verità, ma ancora non ci siamo, permane la nebbia dei sofisti, e questa non viene diradata da una risposta soddisfacente ai dubbi e alle domande degli stessi. Socrate prende le distanze dei sofisti, ma di fatto ne sposa la metodologia e la visone dell’uomo. Cioè di un uomo ripiegato su se stesso e con un atteggiamento quasi sprezzante della realtà che lo circonda.
L’unità e la molteplicità, l’essere e il non essere, l’immobilità e il divenire, il mondo come una grande monade o come un tutto molteplice, rimangono irrisolti e non trovano pace finché non si tornerà ad un confronto sulle cose che esistono e finché non ammetteremo che le idee che ci sembrano elemento unificatore siano riviste qual sono: origine di conflitti fra di loro e fra chi le esprime.
Se due o più persone davanti all’orologio da polso di un amico parlano dell’Universale dell’orologio, si perdono in una miriade di ragionamenti e idee che saranno sempre più lontane dalla realtà di un ben preciso orologio, quello dell’amico del quale si voleva capire se indicava o no l’ora esatta.
L’Universale dell’orologio è di fatto una smaterializzazione dell’orologio per individuarne quel concetto che è comune a tutti gli orologi esistenti, per esempio che segna le ore, ma che non ci permetterà mai di prendere in seria considerazione lo specifico orologio da polso dell’amico e del suo problema di precisione o meno.
Sarà opportuno quindi partire dalle cose e cercare di capire cosa nascondono, perché questo scollamento fra l’uomo che si interroga e la Realtà, che è l’Habitat del suo essere e del suo agire, va colmato senza arrendimenti e scappatoie che rimarranno sempre provvisorie e insoddisfacenti.

Saranno gli allievi e simpatizzanti di Socrate che cercheranno di colmare questo spazio e che vedremo nei prossimi capitoli.

Critiche al relativismo

« Solo gli imbecilli non hanno dubbi. Ne sei sicuro? Non ho alcun dubbio! » (Luciano de Crescenzo, il Dubbio)
Il relativismo fin dalla sua nascita è stato oggetto di contestazioni, in particolare:
·         sul piano logico: i suoi critici sostengono che se, come affermano i relativisti, nessuna rappresentazione umana può aspirare al rango di "oggettività", allora neanche il relativismo stesso può aspirarvi; pertanto esso si contraddirebbe qualora pretenda di essere nel vero.
·         sul piano etico: se, come affermano i sostenitori del relativismo etico, vale il principio di equivalenza di ogni prescrizione morale, ciò non può non avere effetti esiziali sulla società; se infatti non esiste una Verità assoluta di riferimento in base a cui poter distinguere il bene dal male, allora tutto è lecito, affermazione che pretende di porsi a sua volta come una norma assoluta, a dispetto del presunto carattere "non prescrittivo" del relativismo.
Queste critiche potrebbero essere superate solo asserendo che «niente è assoluto e oggettivo, tranne questa stessa frase», ma allora bisognerebbe ammettere che non tutto è relativo, e c'è sempre qualcosa di assoluto da cui non si può prescindere. Agostino d'Ippona diceva in proposito che chi sostiene l'impossibilità di ogni certezza è destinato a contraddirsi, perché non volendo dà sempre per scontata una certezza, ossia la certezza che non vi sono certezze. Per quanti tentativi uno faccia, non si può mai negare del tutto l'esistenza di una verità assoluta, verità che si manifesta proprio nella scoperta della relatività del mondo delle apparenze.
Fra i detrattori del relativismo vi fu Platone, il quale combatté tutta la vita per demolire l'edificio relativista dei sofisti e sostituirlo con un sistema che rendesse possibile una conoscenza certa, e quindi una qualche forma di verità assoluta, dopo aver attribuito al relativismo la colpa dell'uccisione di Socrate. Anche Aristotele criticò i relativisti, accusando Protagora di contraddittorietà, perché se l'uomo fosse misura di tutte le cose non ci sarebbe alcun criterio per distinguere il vero dal falso. (Metafisica)
La visione della Chiesa cattolica
Nella visione cattolica il relativismo culturale è ritenuto inaccettabile quando diventa relativismo etico e mette in dubbio le verità rivelate che sono oggetto della fede cattolica. La Chiesa afferma di rispettare le culture diverse dalla propria per le quali, oggi, propone una missionarietà che parte dal valorizzare i valori propri di ogni popolo ed etnia, e faccia comprendere che ciò che è contro Dio à anche contro l’uomo.
Altro concetto è quello che porre la propria fede accanto alle altre, attribuendo a tutte lo stesso valore, significherebbe snaturare la Chiesa e il suo messaggio “il Vangelo”; essa si richiama in proposito alle parole di Gesù: «Io sono la via, la verità, la vita»; «Non potete servire a Dio e a mammona». 
Le posizioni contro il relativismo sono sancite nella costituzione Gaudium et Spes, e in alcune encicliche (tra cui Fides et Ratio e Veritatis Splendor), e in alcune note dottrinali della Congregazione per la dottrina della fede dove si legge: «[il] relativismo culturale [..] offre evidenti segni di sé nella teorizzazione e difesa del pluralismo etico che sancisce la decadenza e la dissoluzione della ragione e dei principi della legge morale naturale. A seguito di questa tendenza non è inusuale, purtroppo, riscontrare in dichiarazioni pubbliche affermazioni in cui si sostiene che tale pluralismo etico è la condizione per la democrazia».
Il 17 aprile 2005 l'allora cardinale Ratzinger affermava in un'omelia sul relativismo: « Si va costituendo una dittatura del relativismo che non riconosce nulla come definitivo e che lascia come ultima misura solo il proprio io e le sue voglie. Noi, invece, abbiamo un'altra misura: il Figlio di Dio, il vero uomo. È lui la misura del vero umanesimo.»
L'enciclica di Benedetto XVI  Spe salvi del 30 novembre 2007, ribadisce la posizione della Chiesa cattolica sul relativismo. Vi si legge infatti che: « … se il progresso per essere progresso ha bisogno della crescita morale dell'umanità, allora la ragione del potere e del fare deve altrettanto urgentemente essere integrata mediante l'apertura della ragione alle forze salvifiche della fede, al discernimento tra bene e male. Solo così diventa una ragione veramente umana. Diventa umana solo se è in grado di indicare la strada alla volontà, e di questo è capace solo se guarda oltre se stessa. In caso contrario la situazione dell'uomo, nello squilibrio tra capacità materiale e mancanza di giudizio del cuore, diventa una minaccia per lui e per il creato».(Spe Salvi, 23)
Secondo i critici della visione cattolica, il paradosso di queste posizione sta proprio nella non accettazione, da parte della Chiesa cattolica, della medesima importanza tra le culture, compresa quella cattolica (al contrario dei "relativisti", che affermano di accettare di buon grado anche la cultura cattolica, purché non sia imposta a coloro che cattolici non sono). La presunta impossibilità di conciliare i valori etici delle varie popolazioni con quelli cattolici, senza che venga persa la cultura tradizionale originaria, è il tema delle critiche più frequentemente rivolte ai missionari e alla modalità di trasmissione dei valori evangelici, che viene accusata di essere troppo occidentalizzante. La Chiesa accusa invece gli organi internazionali di diffondere tra le popolazioni una morale relativista e per questo si concentra sull'inculturazione, cercando di mediare la visione etica delle "verità" rivelate con le tradizioni locali. Il termine è stato usato anche per criticare quei “cattolici” (di nome ma non di fatto) che accettano che la legge civile permetta comportamenti contrari alla dottrina cattolica.



[Ecco il testo integrale della "lectio magistralis" tenuta da Benedetto XVI nell'Aula Magna dell'Università di Regensburg martedì 12 settembre 2006, in un "incontro con i rappresentanti della scienza", durante il viaggio apostolico in Germania dal 9 al 14 settembre. Per la precisione: definito da più fonti "lectio magistralis", il testo è ufficialmente indicato sul sito web della Santa Sede come "Discorso del Santo Padre" e ha per titolo "Fede, ragione e università. Ricordi e riflessioni."]

Eminenze, Magnificenze, Eccellenze, Illustri Signori, gentili Signore!
È per me un momento emozionante trovarmi ancora una volta nell'università e una volta ancora poter tenere una lezione. I miei pensieri, contemporaneamente, ritornano a quegli anni in cui, dopo un bel periodo presso l'Istituto superiore di Freising, iniziai la mia attività di insegnante accademico all'università di Bonn. Era – nel 1959 – ancora il tempo della vecchia università dei professori ordinari. Per le singole cattedre non esistevano né assistenti né dattilografi, ma in compenso c'era un contatto molto diretto con gli studenti e soprattutto anche tra i professori. Ci si incontrava prima e dopo la lezione nelle stanze dei docenti. I contatti con gli storici, i filosofi, i filologi e naturalmente anche tra le due facoltà teologiche erano molto stretti. Una volta in ogni semestre c'era un cosiddetto dies academicus, in cui professori di tutte le facoltà si presentavano davanti agli studenti dell'intera università, rendendo così possibile un’esperienza di universitas – una cosa a cui anche Lei, Magnifico Rettore, ha accennato poco fa – l’esperienza, cioè del fatto che noi, nonostante tutte le specializzazioni, che a volte ci rendono incapaci di comunicare tra di noi, formiamo un tutto e lavoriamo nel tutto dell'unica ragione con le sue varie dimensioni, stando così insieme anche nella comune responsabilità per il retto uso della ragione – questo fatto diventava esperienza viva. L'università, senza dubbio, era fiera anche delle sue due facoltà teologiche. Era chiaro che anch'esse, interrogandosi sulla ragionevolezza della fede, svolgono un lavoro che necessariamente fa parte del tutto dell'universitas scientiarum, anche se non tutti potevano condividere la fede, per la cui correlazione con la ragione comune si impegnano i teologi. Questa coesione interiore nel cosmo della ragione non venne disturbata neanche quando una volta trapelò la notizia che uno dei colleghi aveva detto che nella nostra università c'era una stranezza: due facoltà che si occupavano di una cosa che non esisteva – di Dio. Che anche di fronte ad uno scetticismo così radicale resti necessario e ragionevole interrogarsi su Dio per mezzo della ragione e ciò debba essere fatto nel contesto della tradizione della fede cristiana: questo, nell'insieme dell'università, era una convinzione indiscussa.
Tutto ciò mi tornò in mente, quando recentemente lessi la parte edita dal professore Theodore Khoury (Münster) del dialogo che il dotto imperatore bizantino Manuele II Paleologo, forse durante i quartieri d'inverno del 1391 presso Ankara, ebbe con un persiano colto su cristianesimo e islam e sulla verità di ambedue. Fu poi presumibilmente l'imperatore stesso ad annotare, durante l'assedio di Costantinopoli tra il 1394 e il 1402, questo dialogo; si spiega così perché i suoi ragionamenti siano riportati in modo molto più dettagliato che non quelli del suo interlocutore persiano. Il dialogo si estende su tutto l'ambito delle strutture della fede contenute nella Bibbia e nel Corano e si sofferma soprattutto sull'immagine di Dio e dell'uomo, ma necessariamente anche sempre di nuovo sulla relazione tra le – come si diceva – tre Leggi o tre ordini di vita: Antico Testamento – Nuovo Testamento – Corano. Di ciò non intendo parlare ora in questa lezione; vorrei toccare solo un argomento – piuttosto marginale nella struttura dell’intero dialogo – che, nel contesto del tema fede e ragione, mi ha affascinato e che mi servirà come punto di partenza per le mie riflessioni su questo tema
Nel settimo colloquio (διάλεξις – controversia) edito dal prof. Khoury, l'imperatore tocca il tema della jihād, della guerra santa. Sicuramente l'imperatore sapeva che nella sura 2, 256 si legge: Nessuna costrizione nelle cose di fede. È una delle sure del periodo iniziale, dicono gli esperti, in cui Maometto stesso era ancora senza potere e minacciato. Ma, naturalmente, l'imperatore conosceva anche le disposizioni, sviluppate successivamente e fissate nel Corano, circa la guerra santa. Senza soffermarsi sui particolari, come la differenza di trattamento tra coloro che possiedono il Libro e gli increduli, egli, in modo sorprendentemente brusco che ci stupisce, si rivolge al suo interlocutore semplicemente con la domanda centrale sul rapporto tra religione e violenza in genere, dicendo: Mostrami pure ciò che Maometto ha portato di nuovo, e vi troverai soltanto delle cose cattive e disumane, come la sua direttiva di diffondere per mezzo della spada la fede che egli predicava. L'imperatore, dopo essersi pronunciato in modo così pesante, spiega poi minuziosamente le ragioni per cui la diffusione della fede mediante la violenza è cosa irragionevole. La violenza è in contrasto con la natura di Dio e la natura dell'anima. Dio non si compiace del sangue - egli dice -, non agire secondo ragione, „σὺν λόγω”, è contrario alla natura di Dio. La fede è frutto dell'anima, non del corpo. Chi quindi vuole condurre qualcuno alla fede ha bisogno della capacità di parlare bene e di ragionare correttamente, non invece della violenza e della minaccia… Per convincere un'anima ragionevole non è necessario disporre né del proprio braccio, né di strumenti per colpire né di qualunque altro mezzo con cui si possa minacciare una persona di morte…. 
L'affermazione decisiva in questa argomentazione contro la conversione mediante la violenza è: non agire secondo ragione è contrario alla natura di Dio. L'editore, Theodore Khoury, commenta: per l'imperatore, come bizantino cresciuto nella filosofia greca, quest'affermazione è evidente. Per la dottrina musulmana, invece, Dio è assolutamente trascendente. La sua volontà non è legata a nessuna delle nostre categorie, fosse anche quella della ragionevolezza. In questo contesto Khoury cita un'opera del noto islamista francese R. Arnaldez, il quale rileva che Ibn Hazn si spinge fino a dichiarare che Dio non sarebbe legato neanche dalla sua stessa parola e che niente lo obbligherebbe a rivelare a noi la verità. Se fosse sua volontà, l'uomo dovrebbe praticare anche l'idolatria.
A questo punto si apre, nella comprensione di Dio e quindi nella realizzazione concreta della religione, un dilemma che oggi ci sfida in modo molto diretto. La convinzione che agire contro la ragione sia in contraddizione con la natura di Dio, è soltanto un pensiero greco o vale sempre e per se stesso? Io penso che in questo punto si manifesti la profonda concordanza tra ciò che è greco nel senso migliore e ciò che è fede in Dio sul fondamento della Bibbia. Modificando il primo versetto del Libro della Genesi, il primo versetto dell’intera Sacra Scrittura, Giovanni ha iniziato il prologo del suo Vangelo con le parole: In principio era il λόγος. È questa proprio la stessa parola che usa l'imperatore: Dio agisce „σὺν λόγω”, con logos. Logos significa insieme ragione e parola – una ragione che è creatrice e capace di comunicarsi ma, appunto, come ragione. Giovanni con ciò ci ha donato la parola conclusiva sul concetto biblico di Dio, la parola in cui tutte le vie spesso faticose e tortuose della fede biblica raggiungono la loro meta, trovano la loro sintesi. In principio era il logos, e il logos è Dio, ci dice l'evangelista. L'incontro tra il messaggio biblico e il pensiero greco non era un semplice caso. La visione di san Paolo, davanti al quale si erano chiuse le vie dell'Asia e che, in sogno, vide un Macedone e sentì la sua supplica: Passa in Macedonia e aiutaci! (cfr At 16,6-10) – questa visione può essere interpretata come una condensazione della necessità intrinseca di un avvicinamento tra la fede biblica e l'interrogarsi greco.

In realtà, questo avvicinamento ormai era avviato da molto tempo. Già il nome misterioso di Dio dal roveto ardente, che distacca questo Dio dall'insieme delle divinità con molteplici nomi affermando soltanto il suo Io sono, il suo essere, è, nei confronti del mito, una contestazione con la quale sta in intima analogia il tentativo di Socrate di vincere e superare il mito stesso. Il processo iniziato presso il roveto raggiunge, all'interno dell'Antico Testamento, una nuova maturità durante l'esilio, dove il Dio d'Israele, ora privo della Terra e del culto, si annuncia come il Dio del cielo e della terra, presentandosi con una semplice formula che prolunga la parola del roveto: Io sono. Con questa nuova conoscenza di Dio va di pari passo una specie di illuminismo, che si esprime in modo drastico nella derisione delle divinità che sarebbero soltanto opera delle mani dell'uomo (cfr Sal 115). Così, nonostante tutta la durezza del disaccordo con i sovrani ellenistici, che volevano ottenere con la forza l'adeguamento allo stile di vita greco e al loro culto idolatrico, la fede biblica, durante l'epoca ellenistica, andava interiormente incontro alla parte migliore del pensiero greco, fino ad un contatto vicendevole che si è poi realizzato specialmente nella tarda letteratura sapienziale. Oggi noi sappiamo che la traduzione greca dell'Antico Testamento, realizzata in Alessandria – la Settanta –, è più di una semplice (da valutare forse in modo addirittura poco positivo) traduzione del testo ebraico: è infatti una testimonianza testuale a se stante e uno specifico importante passo della storia della Rivelazione, nel quale si è realizzato questo incontro in un modo che per la nascita del cristianesimo e la sua divulgazione ha avuto un significato decisivo. Nel profondo, vi si tratta dell'incontro tra fede e ragione, tra autentico illuminismo e religione. Partendo veramente dall'intima natura della fede cristiana e, al contempo, dalla natura del pensiero greco fuso ormai con la fede, Manuele II poteva dire: Non agire con il logos è contrario alla natura di Dio.
Per onestà bisogna annotare a questo punto che, nel tardo Medioevo, si sono sviluppate nella teologia tendenze che rompono questa sintesi tra spirito greco e spirito cristiano. In contrasto con il cosiddetto intellettualismo agostiniano e tomista iniziò con Duns Scoto una impostazione volontaristica, la quale alla fine, nei suoi successivi sviluppi, portò all'affermazione che noi di Dio conosceremmo soltanto la voluntas ordinata. Al di là di essa esisterebbe la libertà di Dio, in virtù della quale Egli avrebbe potuto creare e fare anche il contrario di tutto ciò che effettivamente ha fatto. Qui si profilano delle posizioni che, senz'altro, possono avvicinarsi a quelle di Ibn Hazn e potrebbero portare fino all'immagine di un Dio-Arbitrio, che non è legato neanche alla verità e al bene. La trascendenza e la diversità di Dio vengono accentuate in modo così esagerato, che anche la nostra ragione, il nostro senso del vero e del bene non sono più un vero specchio di Dio, le cui possibilità abissali rimangono per noi eternamente irraggiungibili e nascoste dietro le sue decisioni effettive. In contrasto con ciò, la fede della Chiesa si è sempre attenuta alla convinzione che tra Dio e noi, tra il suo eterno Spirito creatore e la nostra ragione creata esista una vera analogia, in cui – come dice il Concilio Lateranense IV nel 1215 –certo le dissomiglianze sono infinitamente più grandi delle somiglianze, non tuttavia fino al punto da abolire l'analogia e il suo linguaggio. Dio non diventa più divino per il fatto che lo spingiamo lontano da noi in un volontarismo puro ed impenetrabile, ma il Dio veramente divino è quel Dio che si è mostrato come logos e come logos ha agito e agisce pieno di amore in nostro favore. Certo, l'amore, come dice Paolo, "sorpassa" la conoscenza ed è per questo capace di percepire più del semplice pensiero (cfr Ef 3,19), tuttavia esso rimane l'amore del Dio-Logos, per cui il λατρεία“ – un culto che é culto cristiano è, come dice ancora Paolo „λογικη concorda con il Verbo eterno e con la nostra ragione (cfr Rm 12,1). 
Il qui accennato vicendevole avvicinamento interiore, che si è avuto tra la fede biblica e l'interrogarsi sul piano filosofico del pensiero greco, è un dato di importanza decisiva non solo dal punto di vista della storia delle religioni, ma anche da quello della storia universale – un dato che ci obbliga anche oggi. Considerato questo incontro, non è sorprendente che il cristianesimo, nonostante la sua origine e qualche suo sviluppo importante nell'Oriente, abbia infine trovato la sua impronta storicamente decisiva in Europa. Possiamo esprimerlo anche inversamente: questo incontro, al quale si aggiunge successivamente ancora il patrimonio di Roma, ha creato l'Europa e rimane il fondamento di ciò che, con ragione, si può chiamare Europa.
Alla tesi che il patrimonio greco, criticamente purificato, sia una parte integrante della fede cristiana, si oppone la richiesta della deellenizzazione del cristianesimo – una richiesta che dall'inizio dell'età moderna domina in modo crescente la ricerca teologica. Visto più da vicino, si possono osservare tre onde nel programma della deellenizzazione: pur collegate tra di loro, esse tuttavia nelle loro motivazioni e nei loro obiettivi sono chiaramente distinte l'una dall'altra
La deellenizzazione emerge dapprima in connessione con i postulati della Riforma del XVI secolo. Considerando la tradizione delle scuole teologiche, i riformatori si vedevano di fronte ad una sistematizzazione della fede condizionata totalmente dalla filosofia, di fronte cioè ad una determinazione della fede dall'esterno in forza di un modo di pensare che non derivava da essa. Così la fede non appariva più come vivente parola storica, ma come elemento inserito nella struttura di un sistema filosofico. Il sola Scriptura invece cerca la pura forma primordiale della fede, come essa è presente originariamente nella Parola biblica. La metafisica appare come un presupposto derivante da altra fonte, da cui occorre liberare la fede per farla tornare ad essere totalmente se stessa. Con la sua affermazione di aver dovuto accantonare il pensare per far spazio alla fede, Kant ha agito in base a questo programma con una radicalità imprevedibile per i riformatori. Con ciò egli ha ancorato la fede esclusivamente alla ragione pratica, negandole l'accesso al tutto della realtà.
La teologia liberale del XIX e del XX secolo apportò una seconda onda nel programma della deellenizzazione: di essa rappresentante eminente è Adolf von Harnack. Durante il tempo dei miei studi, come nei primi anni della mia attività accademica, questo programma era fortemente operante anche nella teologia cattolica. Come punto di partenza era utilizzata la distinzione di Pascal tra il Dio dei filosofi ed il Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe. Nella mia prolusione a Bonn, nel 1959, ho cercato di affrontare questo argomento e non intendo riprendere qui tutto il discorso. Vorrei però tentare di mettere in luce almeno brevemente la novità che caratterizzava questa seconda onda di deellenizzazione rispetto alla prima. Come pensiero centrale appare, in Harnack, il ritorno al semplice uomo Gesù e al suo messaggio semplice, che verrebbe prima di tutte le teologizzazioni e, appunto, anche prima delle ellenizzazioni: sarebbe questo messaggio semplice che costituirebbe il vero culmine dello sviluppo religioso dell'umanità. Gesù avrebbe dato un addio al culto in favore della morale. In definitiva, Egli viene rappresentato come padre di un messaggio morale umanitario. Lo scopo di Harnack è in fondo di riportare il cristianesimo in armonia con la ragione moderna, liberandolo, appunto, da elementi apparentemente filosofici e teologici, come per esempio la fede nella divinità di Cristo e nella trinità di Dio. In questo senso, l'esegesi storico-critica del Nuovo Testamento, nella sua visione, sistema nuovamente la teologia nel cosmo dell'università: teologia, per Harnack, è qualcosa di essenzialmente storico e quindi di strettamente scientifico. Ciò che essa indaga su Gesù mediante la critica è, per così dire, espressione della ragione pratica e di conseguenza anche sostenibile nell'insieme dell'università. Nel sottofondo c'è l'autolimitazione moderna della ragione, espressa in modo classico nelle "critiche" di Kant, nel frattempo però ulteriormente radicalizzata dal pensiero delle scienze naturali. Questo concetto moderno della ragione si basa, per dirla in breve, su una sintesi tra platonismo (cartesianismo) ed empirismo, che il successo tecnico ha confermato. Da una parte si presuppone la struttura matematica della materia, la sua per così dire razionalità intrinseca, che rende possibile comprenderla ed usarla nella sua efficacia operativa: questo presupposto di fondo è, per così dire, l'elemento platonico nel concetto moderno della natura. Dall'altra parte, si tratta della utilizzabilità funzionale della natura per i nostri scopi, dove solo la possibilità di controllare verità o falsità mediante l'esperimento fornisce la certezza decisiva. Il peso tra i due poli può, a seconda delle circostanze, stare più dall'una o più dall'altra parte. Un pensatore così strettamente positivista come J. Monod si è dichiarato convinto platonico. 
Questo comporta due orientamenti fondamentali decisivi per la nostra questione. Soltanto il tipo di certezza derivante dalla sinergia di matematica ed empiria ci permette di parlare di scientificità. Ciò che pretende di essere scienza deve confrontarsi con questo criterio. E così anche le scienze che riguardano le cose umane, come la storia, la psicologia, la sociologia e la filosofia, cercavano di avvicinarsi a questo canone della scientificità. Importante per le nostre riflessioni, comunque, è ancora il fatto che il metodo come tale esclude il problema Dio, facendolo apparire come problema ascientifico o pre-scientifico. Con questo, però, ci troviamo davanti ad una riduzione del raggio di scienza e ragione che è doveroso mettere in questione.
Tornerò ancora su questo argomento. Per il momento basta tener presente che, in un tentativo alla luce di questa prospettiva di conservare alla teologia il carattere di disciplina "scientifica", del cristianesimo resterebbe solo un misero frammento. Ma dobbiamo dire di più: se la scienza nel suo insieme è soltanto questo, allora è l'uomo stesso che con ciò subisce una riduzione. Poiché allora gli interrogativi propriamente umani, cioè quelli del "da dove" e del "verso dove", gli interrogativi della religione e dell'ethos, non possono trovare posto nello spazio della comune ragione descritta dalla "scienza" intesa in questo modo e devono essere spostati nell'ambito del soggettivo. Il soggetto decide, in base alle sue esperienze, che cosa gli appare religiosamente sostenibile, e la "coscienza" soggettiva diventa in definitiva l'unica istanza etica. In questo modo, però, l'ethos e la religione perdono la loro forza di creare una comunità e scadono nell'ambito della discrezionalità personale. È questa una condizione pericolosa per l'umanità: lo costatiamo nelle patologie minacciose della religione e della ragione – patologie che necessariamente devono scoppiare, quando la ragione viene ridotta a tal punto che le questioni della religione e dell'ethos non la riguardano più. Ciò che rimane dei tentativi di costruire un'etica partendo dalle regole dell'evoluzione o dalla psicologia e dalla sociologia, è semplicemente insufficiente. 
Prima di giungere alle conclusioni alle quali mira tutto questo ragionamento, devo accennare ancora brevemente alla terza onda della deellenizzazione che si diffonde attualmente. In considerazione dell’incontro con la molteplicità delle culture si ama dire oggi che la sintesi con l’ellenismo, compiutasi nella Chiesa antica, sarebbe stata una prima inculturazione, che non dovrebbe vincolare le altre culture. Queste dovrebbero avere il diritto di tornare indietro fino al punto che precedeva quella inculturazione per scoprire il semplice messaggio del Nuovo Testamento ed inculturarlo poi di nuovo nei loro rispettivi ambienti. Questa tesi non è semplicemente sbagliata; è tuttavia grossolana ed imprecisa. Il Nuovo Testamento, infatti, e stato scritto in lingua greca e porta in se stesso il contatto con lo spirito greco – un contatto che era maturato nello sviluppo precedente dell’Antico Testamento. Certamente ci sono elementi nel processo formativo della Chiesa antica che non devono essere integrati in tutte le culture. Ma le decisioni di fondo che, appunto, riguardano il rapporto della fede con la ricerca della ragione umana, queste decisioni di fondo fanno parte della fede stessa e ne sono gli sviluppi, conformi alla sua natura.
Con ciò giungo alla conclusione. Questo tentativo, fatto solo a grandi linee, di critica della ragione moderna dal suo interno, non include assolutamente l’opinione che ora si debba ritornare indietro, a prima dell’illuminismo, rigettando le convinzioni dell’età moderna. Quello che nello sviluppo moderno dello spirito è valido viene riconosciuto senza riserve: tutti siamo grati per le grandiose possibilità che esso ha aperto all’uomo e per i progressi nel campo umano che ci sono stati donati. L’ethos della scientificità, del resto, è – Lei l’ha accennato, Magnifico Rettore – volontà di obbedienza alla verità e quindi espressione di un atteggiamento che fa parte delle decisioni essenziali dello spirito cristiano. Non ritiro, non critica negativa è dunque l’intenzione; si tratta invece di un allargamento del nostro concetto di ragione e dell’uso di essa. Perché con tutta la gioia di fronte alle possibilità dell'uomo, vediamo anche le minacce che emergono da queste possibilità e dobbiamo chiederci come possiamo dominarle. Ci riusciamo solo se ragione e fede si ritrovano unite in un modo nuovo; se superiamo la limitazione autodecretata della ragione a ciò che è verificabile nell'esperimento, e dischiudiamo ad essa nuovamente tutta la sua ampiezza. In questo senso la teologia, non soltanto come disciplina storica e umano-scientifica, ma come teologia vera e propria, cioè come interrogativo sulla ragione della fede, deve avere il suo posto nell'università e nel vasto dialogo delle scienze.
Solo così diventiamo anche capaci di un vero dialogo delle culture e delle religioni – un dialogo di cui abbiamo un così urgente bisogno. Nel mondo occidentale domina largamente l'opinione, che soltanto la ragione positivista e le forme di filosofia da essa derivanti siano universali. Ma le culture profondamente religiose del mondo vedono proprio in questa esclusione del divino dall'universalità della ragione un attacco alle loro convinzioni più intime. Una ragione, che di fronte al divino è sorda e respinge la religione nell'ambito delle sottoculture, è incapace di inserirsi nel dialogo delle culture. E tuttavia, la moderna ragione propria delle scienze naturali, con l'intrinseco suo elemento platonico, porta in sé, come ho cercato di dimostrare, un interrogativo che la trascende insieme con le sue possibilità metodiche. Essa stessa deve semplicemente accettare la struttura razionale della materia e la corrispondenza tra il nostro spirito e le strutture razionali operanti nella natura come un dato di fatto, sul quale si basa il suo percorso metodico. Ma la domanda sul perché di questo dato di fatto esiste e deve essere affidata dalle scienze naturali ad altri livelli e modi del pensare – alla filosofia e alla teologia. Per la filosofia e, in modo diverso, per la teologia, l'ascoltare le grandi esperienze e convinzioni delle tradizioni religiose dell'umanità, specialmente quella della fede cristiana, costituisce una fonte di conoscenza; rifiutarsi ad essa significherebbe una riduzione inaccettabile del nostro ascoltare e rispondere. Qui mi viene in mente una parola di Socrate a Fedone. Nei colloqui precedenti si erano toccate molte opinioni filosofiche sbagliate, e allora Socrate dice: "Sarebbe ben comprensibile se uno, a motivo dell'irritazione per tante cose sbagliate, per il resto della sua vita prendesse in odio ogni discorso sull'essere e lo denigrasse. Ma in questo modo perderebbe la verità dell'essere e subirebbe un grande danno". L'occidente, da molto tempo, è minacciato da questa avversione contro gli interrogativi fondamentali della sua ragione, e così potrebbe subire solo un grande danno. Il coraggio di aprirsi all'ampiezza della ragione, non il rifiuto della sua grandezza – è questo il programma con cui una teologia impegnata nella riflessione sulla fede biblica, entra nella disputa del tempo presente. "Non agire secondo ragione, non agire con il logos, è contrario alla natura di Dio" ha detto Manuele II, partendo dalla sua immagine cristiana di Dio, all'interlocutore persiano. È a questo grande logos, a questa vastità della ragione, che invitiamo nel dialogo delle culture i nostri interlocutori. Ritrovarla noi stessi sempre di nuovo, è il grande compito dell'università.

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